Aiuto c’è un coniglio che mi annuncia la fine del mondo tra 28 giorni. Donnie Darko torna vent’anni dopo nelle sale italiane per tre giorni (3-4-5 giugno) in tutta la sua enigmatica e insinuante apocalisse adolescenziale. Cult soprattutto oltreoceano, ma con parecchi fan anche qui, l’opera prima di Richard Kelly (e per essere cattivi sostanzialmente anche l’ultima) è l’antesignano di un ipotetico frullato di teorie, diremmo oggi, sul multiverso. Tema che a chi scrive annoia parecchio, ma che con quell’insinuante ipotesi del “wormhole” (un cunicolo spazio temporale che collega distanze ridottissime o infinite) spizzicata da Einstein e rinvigorita da Hawking, si porta dietro il significato del mistero del film (mai svelato da Kelly che del film fu da 27enne anche sceneggiatore) e tutto il codazzo di amici che chiede sempre “ma quindi cosa vuol dire?”.
Aspetto, quello fisico fantastico del wormhole che peraltro Kelly dosa con particolare acume e misura – ricorderete quei tunnel cilindrici trasparenti e oblunghi che escono dal petto di alcune personaggi del film – incastonandolo in un racconto curiosamente felice, ripulito da molti, prevedibili infamanti luoghi comuni sulla middle class suburbana con le belle villette sul vialetto curatissimo. Il risucchio temporale è all’ottobre 1988 avvolto nel benessere di una classe media ordinata e priva di doppiezze morali artificiose (per dire, il profluvio di anime nascoste di American Beauty).
Nella famiglia Darko – babbo simpatico, madre determinata, sorellina piccola e sorella grande splendida (Maggie Gyllenhaal al suo apice di splendore) – c’è l’adolescente e robusto Donnie (Jake Gyllenhaal che da qui ha preso il volo nel firmamento hollywoodiano) che sembra soffrire di schizofrenia paranoica e che, appunto, all’improvviso nel solito attacco di sonnambulismo notturno incontra Frank, una figura antropomorfa con una testa di coniglio metallica e dentuta, dedita all’annuncio di una imminente fine del mondo. Mentre Donnie è fuori casa narcolettico e visionario l’enorme motore di un Boeing sfonda il tetto di casa Darko distruggendo la camera del ragazzo in quel momento assente, ma che altrimenti sarebbe morto all’istante. Solo che quel motore non risulta perduto da alcun aereo viaggiante in quelle ore.
Il pezzo del puzzle ovviamente non si troverà, ma sarà determinante per un rewind improvviso e risolutivo proprio nel sottofinale del film. Ciò che però colpisce di Donnie Darko, il film, è proprio questa rappresentazione sui generis di topiche strabusate (famigliola suburbana, scuola conservatrice) nonché di quella forma di disturbo mentale di cui soffre il protagonista che da patetico straccio auto commiserante diventa coordinata psicologica notevolmente intrigante (di alcune proteste verso gli insegnanti ne ride anche il padre che si dichiara elettore repubblicano), tanto da essere probabilmente il vero traino del film per le giovani generazioni che tra il 2001 – anno in cui uscì – e il 2004 andarono al cinema ed elessero Donnie, e il suo comunque ribelle e ironico sacrificio, come modello oppositivo al sistema di regole sociali.
Donnie Darko è oltretutto inondato volontariamente di luce, girato in 35 mm e in formato anamorfico, e ha la particolarità di sfiorare con classe, senza mai immergersi, in una estetica kitsch. Il film ebbe una vita estremamente travagliata. E sembra quasi che il progetto Donnie Darko, dal soggetto scritto da Kelly nel 1997, passando per il sofferto set nell’estate 2000 in California a Long Beach – 28 i giorni di ripresa proprio come il countdown narrativo della storia – e infine all’uscita risicatissima in sala a ottobre 2001 dopo l’anteprima al Sundance nel gennaio dello stesso anno, si fosse come infilato esso stesso in un tortuoso wormhole. Basti pensare che Donnie Darko, prodotto dalla Newmarket films (all’epoca distributrice di Memento di Christopher Nolan che supportò personalmente il film), dopo essere stato tagliato di quasi un’ora, sarebbe dovuto uscire nelle sale ad ottobre 2001 proprio con quel crash del motore che sfonda il tetto dei Darko appena dopo la tragedia planetaria dell’11 settembre 2001.
Donnie Darko racimola in sei mesi nemmeno mezzo milione di dollari. Un fiasco. Il film di Kelly però si rifà stranamente sul medio periodo: 2 milioni e mezzo di dollari in Gran Bretagna, numerose proiezioni di mezzanotte negli USA e nemmeno un anno dopo l’uscita in sala esce in dvd e vhs vendendo una roba come dieci milioni di copie. Nel 2004 Kelly rimette mano alla versione del 2001 (già ridotta all’epoca sotto le due ore) e compone il suo director’s cut da 134 minuti che è quello che, promette Notorius Pictures, vedremo nelle sale italiane in 4k. Donnie Darko rimane comunque il trampolino di lancio per Jake e Maggie Gyllenhaal, dove Patrick Swayze è un insegnante pedofilo e un irriconoscibile Seth Rogen è l’alunno stronzo e cattivo dell’ultimo banco. Di Kelly, si diceva, si sono oramai perse le tracce dal 2009 quando girò il suo terzo lungo – The box, il secondo nel 2006 è Southland tales; mentre esiste un terrificante sequel del 2009, tal S. Darko, disconosciuto da Kelly e da tutto il team produttivo e artistico del primo film, con in scena una partita di giro di attori davvero sconcertante.