La Commedia dell’Arte contemporanea (fenomeno soprattutto italiano, et pour cause) costituisce un mondo spesso litigioso ma anche, a suo modo, affascinante.
Partiamo da due dati di fatto sicuri. 1) La Commedia dell’Arte contemporanea esiste innegabilmente, come dimostra ad esempio l’importante volume curato da Fausto Sesso nel 2015, che raccoglie fra l’altro interviste e testimonianze di decine di artisti (Commedia dell’arte. Voci, Volti, Voli. Poetiche, tradizioni tradite, maestri, teoriche e tecniche della Commedia dell’Arte contemporanea, Moretti & Vitali); 2) i rapporti che essa intrattiene con quella antica sono molto controversi, alla fin fine indimostrabili e fonte di dispute infinite.
Del resto non va mai dimenticato che sullo stesso fenomeno storico, sviluppatosi fra XVI e XVIII secolo, a dispetto di una bibliografia imponente, siamo ben lontani dall’avere verità definitive, a cominciare dalla stessa spiegazione del nome. Resta ancora tanto di misterioso e di indecifrato in un fenomeno per altro celebre e studiatissimo da secoli in tutto il mondo e da secoli oggetto di riprese, rifacimenti, reinvenzioni (il contributo più recente è il bel volume di Teresa Megale: Paradigmi del comico. Studi sulla Commedia dell’Arte, Tab Edizioni, 2023).
Un primo punto fermo: la Commedia dell’Arte fu “riscoperta” agli inizi del Novecento (su basi ottocentesche) dai Padri Fondatori della regia: Craig, Mejerchol’d, Vachtangov, Copeau, Reinhardt… Salvo eccezioni trascurabili, nessuno di essi pensò mai veramente di far rinascere quella antica, perché – come ebbe a scrivere Jacques Copeau – la tradizione si era interrotta e quindi sarebbe stato semplicemente impossibile. E’ dunque più corretto parlare non di rifacimento/recupero, ma di influenza o ispirazione. E questa influenza, o ispirazione, non è legata alla riproposta di un genere, neppure di un’estetica o di una tecnica, ma alla suggestione profonda dell’immagine leggendaria degli attori dell’Arte come attori creatori, maestri di ogni modalità performativa, a cominciare dall’improvvisazione e dalle maschere.
Concordo dunque con la definizione proposta da due degli artisti più attivi in questo campo, Claudia Contin Arlecchino e Ferruccio Merisi, che parlano correttamente di omaggio: “La Nuova Commedia dell’Arte non è un genere di teatro. Semmai è una serie diversificata di ‘omaggi’ a una tradizione professionale.” Si tratta di una posizione simile a quella di Michele Monetta, che nella sua visione artistica e nella sua pedagogia, costruite con rigore in oltre trent’anni di attività, fa della Commedia dell’Arte un riferimento centrale, nutrito tuttavia dalla imprescindibile base tecnica del mimo corporeo di Decroux (con inserzioni da Feldenkrais, Hébert e Lecoq) più che da improbabili ambizioni ricostruttive.
Questo, secondo il maestro campano (ma so che anche Contin Arlecchino concorda), non significa rinunciare a dare una propria risposta alla grande tradizione perduta, ben consapevoli però dell’azzardo e dunque fuori da ogni pretesa di reale continuità pratica o di attendibilità filologica. E’ da un atteggiamento simile, del resto, che sono nati due autentici capolavori del teatro italiano: Arlecchino servitore di due padroni, di Goldoni, regia di Giorgio Strehler (con Marcello Moretti, prima, e poi per decenni Ferruccio Soleri nella parte del titolo), 1947 e sgg., e Il ritorno di Scaramouche di Leo de Berardinis, 1994. In questa linea registica, che attraversa la seconda metà del secolo scorso, invece di cercare di rifare la Commedia dell’Arte si vuol rendere omaggio, appunto, al mito di un teatro creato dagli attori-autori. De Berardinis lo scrisse chiaramente: “Il ritorno di Scaramouche è […] il ritorno di una mentalità: l’attore-autore che scrive col corpo, con la voce, con la luce, coi suoni, con lo spazio scenico, con i propri compagni…”.
Quanto all’Arlecchino del Piccolo, Ferdinando Taviani ebbe a definirlo “un segno del collegarsi di Strehler alla grande stagione della Regia [e] del respiro europeo del teatro strehleriano”. Per fare due esempi più recenti, ho ritrovato lo stesso spirito ne La Pazzia di Isabella. Vita e morte di Comici Gelosi (2004-2014), di Elena Bucci e Marco Sgrosso, e ne Il teatro comico di Roberto Latini, da Goldoni (2018). Chiudo ricordando il compianto Eugenio Allegri, sapiente pedagogo nel segno della Commedia dell’Arte.