Quale Europa? L’atmosfera in cui si sta svolgendo la lunga campagna elettorale dovrebbe far riflettere, anche storicamente. La nascita dell’Unione Europea è stata un lungo processo cominciato nel secondo Dopoguerra e finalizzato alla costruzione di un organo che garantisse la pace e la sicurezza del continente. Dal trattato di Roma del 1957 (che istituì la Cee) sono state molte le trasformazioni, tra le quali il Trattato di Maastricht del 1992 che ha fissato le regole politiche e i parametri economici e sociali necessari per l’ingresso di nuovi Stati aderenti. Ad ogni modo sembra che i cambiamenti che attraversano questa storia abbiano come filo conduttore una matrice fortemente economica. “Certamente la componente economica è stata fondamentale – spiega Alessandro Guerra, professore associato di Storia moderna al Dipartimento di Scienze Politiche della Sapienza – Ma la speranza di trovare una composizione pacifica intorno al carbone e all’acciaio muoveva anche dall’esigenza funzionale di chiudere per sempre lo scontro fra Francia e Germania iniziato alla metà dell’Ottocento; allo stesso modo in cui l’istanza comunitaria veicolava la necessità di abdicare all’interesse nazionalista che aveva provocato lutti e rovine. Certamente la crisi degli ultimi decenni ha esasperato la natura economica delle relazioni politiche e umane, disumanizzando il vincolo europeo, il richiamo a qualcosa che eccede lo Stato-nazione a cui da sempre ci si appella”.
Professor Guerra, prima dell’Unione Europea che idee politiche di una possibile Europa sono esistite? E ancora, come nasce il concetto stesso di Europa?
Lo storico Lucien Febvre sostiene che l’Europa è una “unità storica” che nasce quando l’Impero Romano crolla, a dire che per la prima volta si definiva territorialmente trasformando il Mediterraneo in confine (come sperimentano sulla propria pelle i migranti) e aprendosi all’incontro con le popolazioni indoeuropee che erano venute da nord. L’Europa in qualche misura nasce su questo spazio di resistenza della civiltà greco-romana a cui il cristianesimo ha fornito una verità intorno a cui costruire la propria identità. Eppure malgrado tutto, per molti secoli resiste una porosità che fa dell’Europa uno spazio di incontri con le altre culture, di nazioni che si incontrano nelle città di frontiera e nella università. Di solidarietà di popoli che cominciano a vivere fianco a fianco e inventano nuove istituzioni comuni.
Unione Europea e pace. Quanto questa associazione era aderente al momento storico di allora, come si è trasformata e cosa ci dice a oggi?
La storia dell’idea di Europa si fa storia d’Europa a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale. Altiero Spinelli nel 1941, internato a Ventotene, insieme ad Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni redasse il manifesto “Per un’Europa libera e unita” (più comunemente noto come Manifesto di Ventotene), ed è considerato un precursore del processo di integrazione europea. Nell’utopia concreta di Spinelli e di quelli che come lui sognavano l’unità federale dell’Europa la pace era un valore intrinseco. L’Europa nasceva come antidoto alla guerra attraverso il superamento delle nazioni. Certo oggi è più difficile sostenere una posizione del genere di fronte alla prolungata afasia della sua classe dirigente, incapace di impegnarsi davvero per la pace se non attraverso auspici e vaghe formulazioni di principio. E senza essere davvero riusciti a smontare dall’interno il peso dei singoli Stati membro, come risulta evidente dalla gestione dell’immigrazione, dall’evanescenza sul massacro della popolazione di Gaza, e in piccolo anche in questa campagna elettorale. Ma, ripetendo l’esortazione di Habermas, abbiamo bisogno dell’Europa. Forse, le generazioni più giovani che stanno ora affacciandosi al mondo avranno la possibilità di trasformarla in uno spazio di reale condivisione.
Da tempo si nota un tentativo (tutto propagandistico) di “ritorno al popolo”. Si parla di “popolo” come massa omogenea senza riconoscerne pluralità (e legittima conflittualità) sociale. Si cerca di rappresentare questa idea informe di unità popolare attraverso dei leader che cercano il plebiscito. Si gioca tutto sulla spettacolarizzazione di una politica priva di contenuti e sull’ “umanizzazione” di leader continuamente mostrati in una performance di quotidianità. Dinamiche che ricordano le democrazie illiberali del primo Ottocento.
È vero, la stessa rassegnata devozione al capo, la cieca fiducia all’Impero o al papa. Tuttavia, allora resisteva nella memoria il ricordo della grande Rivoluzione di Francia; ne ispirava le pratiche di resistenza necessariamente clandestina e le aspirazioni a cambiare il mondo, a renderlo più giusto. Lo spirito di fraternità alimentava le nuove idee che lentamente ma inesorabilmente si preparavano a germinare. Ora mi sembra che il disincanto, l’egoismo e la rassegnazione che tutto è sempre uguale, quel cinismo insopportabile che ridicolizza chiunque ambisca a un mondo diverso sia diventato uno stile di vita. Ma, insomma, forse non tutto è perduto.