di Leonardo Botta

Sono il primo a riconoscere l’efficacia del colpo inferto da Meloni a De Luca in quel di Caivano (“Presidente De Luca, sono la str**za della Meloni”), che ha scaldato i cuori dei suoi sostenitori più dell’urlo di Tardelli ai mondiali ’82; un colpo ben studiato e meglio ancora messo in scena. Per cui la morale della favola è che, a questo giro, il governatore campano è stato battuto dalla premier sul suo stesso campo, quello della comunicazione a effetto per la quale è diventato da tempo iconico (come dimenticare le sue dirette social a suon di “cinghialoni” e “lanciafiamme”). E non mi stupirei affatto se quella scena avesse fatto guadagnare diversi decimali nel consenso della Giorgia nazionale (vedremo l’esito del voto alle elezioni europee dell’8 e 9 giugno prossimi).

Ciò detto, vorrei ragionare di tutto l’indotto che questo episodio sta generando. In particolare sto riflettendo sulle successive dichiarazioni della premier che, in estrema sintesi, accusa De Luca di maschilismo per quella poco felice frase riferita a lei, carpita da una telecamera, quattro mesi fa, in una conversazione del governatore in Parlamento (“vai a lavorare tu, str**za”). Dunque, dopo i fatti di Caivano la presidente del Consiglio ha più volte sottolineato la circostanza secondo cui, a suo avviso, De Luca mai avrebbe usato quel “grazioso appellativo” all’indirizzo di un uomo, e ha biasimato la sinistra, a partire dalla segretaria dem Elly Schlein, per non aver stigmatizzato quell’insulto.

Orbene, giova forse ricordare l’antefatto: in quell’occasione De Luca si era recato a Roma, con centinaia di sindaci campani al seguito, per protestare contro il governo su materie come autonomia differenziata e fondi di coesione, lamentandosi di trovare porte chiuse tra i palazzi ministeriali. Intanto, gli arrivavano notizie di un intervento della premier in altra sede, in cui invitava De Luca, piuttosto che perdere tempo a Roma, ad andare a lavorare (invito piuttosto pretestuoso: De Luca ha mille difetti, ma nessuno ha mai messo in discussione il suo stakanovismo). Da qui si capisce, ma non si giustifica, la frase di reazione (“vai a lavorare tu, str**za”), ancorché spacciata da lui per uno sfogo privato (ma per uno dei politici più pittoreschi e mediaticamente esposti d’Italia il “privato” è un concetto molto labile).

Va detto che De Luca non è nuovo a queste uscite: alcuni anni fa, quando la presidente della Commissione antimafia Rosy Bindi inserì (forse indebitamente) il suo nome nella lista degli impresentabili alle elezioni regionali, ebbe a lamentarsene toccandola “piano”: “La Bindi ha fatto una cosa infame, da ucciderla!”.

Vengo all’accusa di maschilismo rivolta dalla Meloni a De Luca. Ebbene, io non la trovo del tutto fondata: il presidente campano è noto per dispensare quotidianamente epiteti “urbi et orbi”: si va dal ciuffo alla Pippo Baudo per don Patriciello, al “Buio Fitto” rivolto al ministro della Coesione, a Sangiuliano ministro delle “Cerimonie”, al “vi possino ammazzare” usato come intercalare fino, tornando indietro del tempo, a Travaglio a cui augurava di non incontrarsi mai di notte al buio. De Luca è quindi notoriamente un provocatore e molto spesso un prevaricatore: maschilista, francamente, non so.

Piuttosto, se avessi l’onore di trovarmi di fronte alla presidente Meloni, mi piacerebbe rivolgerle un rispettoso quesito: dov’era quando Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio di cui lei era ministra della Gioventù, apostrofava “amabilmente” Rosy Bindi (ancora lei) “più bella che brava”, ricevendo la più spontanea ed epica delle risposte: “Presidente Berlusconi, io sono una donna che non è a sua disposizione!”. E dov’era quando l’altro alleato, Matteo Salvini, mostrava sul palco una bambola gonfiabile presentandola al popolo leghista come “la presidente della Camera Laura Boldrini”?

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