Economia

Giorgetti resta sulla poltrona che scotta. Tra debito sull’orlo del tracollo, maxi tagli di spesa in arrivo e impegni difficili da rinnovare

“Continuo a fare il mio lavoro come sempre, sto già pensando al piano strutturale e ho in mente un progetto preciso. Sugli incarichi europei ho già chiarito cinque anni fa come la penso e non ho cambiato idea”. Giancarlo Giorgetti ha commentato così, lunedì, il retroscena di Repubblica che lo racconta “ai saluti”, pronto a lasciare il Mef nel caso si apra la prospettiva di un incarico europeo. Il leghista smentisce: resterà, come ha fatto nel 2019 quando – da sottosegretario alla presidenza del Consiglio – si è chiamato fuori dalla corsa alla poltrona di commissario. Di certo c’è il fatto che in questi mesi nessuno vorrebbe trovarsi nei suoi panni. A guidare via XX Settembre mentre il debito/pil, in assenza di interventi, si gonfia a valanga dal 137,8% di quest’anno al 138,9% del 2026, per arrivare due anni dopo a superare quello della Grecia. Alle prese, dunque, con la necessità – archiviate le Europee – di intervenire con l’accetta per ridurre le uscite. Per evitare lo spettro delle misure ancora più drastiche che andrebbero adottate nel caso si arrivi a una crisi debitoria vera e propria. Mentre i partiti di maggioranza fanno strenua resistenza e continuano a bussare a soldi.

I nodi stanno per arrivare al pettine. Pochi giorni dopo il voto, la Commissione uscente annuncerà l’attesa procedura di infrazione per deficit eccessivo nei confronti di Roma, che imporrà un taglio di almeno 10 miliardi annui. In contemporanea avvierà gli step necessari per attuare il nuovo Patto di stabilità (su cui il centrodestra si è astenuto al Parlamento Ue per poi promuoverlo nel Parlamento italiano). Quello cruciale è la messa a punto della cosiddetta traiettoria tecnica che la spesa pubblica strutturale, al netto di interessi sul debito e uscite legate al ciclo economico, dovrà seguire per garantire un calo plausibile del debito su un orizzonte di quattro o sette anni. Su quella base l’Italia preparerà il piano fiscale strutturale su cui si concentra l’attenzione di Giorgetti, che vuol spalmare l’aggiustamento su sette anni per addolcire il colpo.

Anche in quel caso dal 2025 servirà una stretta da almeno 11-13 miliardi l’anno in termini di maggiori entrate o minori uscite, di per sé difficilmente compatibile con la promessa di rinnovare le costose (20 miliardi) misure bandiera del governo finanziate solo per il 2024. Tanto più per un Paese in cui la spesa netta – quella a cui guarderà Bruxelles – come evidenziato dalla Ragioneria generale in audizione davanti alle Commissioni bilancio è costituita per il 90% da “oneri inderogabili” come le pensioni su cui non c’è margine di intervento, a meno di cambiare radicalmente approccio alla scrittura del bilancio dello Stato. Il costo politico di un’eventuale marcia indietro sul taglio del cuneo fiscale e delle aliquote Irpef sarebbe elevato, ma potrebbe non esserci alternativa.

A dare un’idea di quanto l’esecutivo Meloni sarà costretto a stringere i cordoni della borsa è lo stesso Documento di economia e finanza presentato lo scorso aprile, tra le polemiche per la mancanza del quadro programmatico. Il capitolo destinato all’analisi di sostenibilità del debito contiene simulazioni che arrivano fino al 2031, alla fine del primo piano strutturale atteso per l’autunno. Lo scenario più interessante è il secondo: il più realistico, perché coerente con le nuove regole del Patto e in linea sia con la correzione minima richiesta dalla procedura per deficit eccessivo sia con le ulteriori “salvaguardie” imposte dalla Germania. Ecco: quel modello, spiega il Def, “identifica un saldo obiettivo dell’avanzo primario strutturale da conseguire nel 2031 pari a circa il 3,3 per cento del pil“. Vale a dire che la differenza tra spesa pubblica e entrate, al netto degli interessi sul debito e delle componenti cicliche, dovrà essere positiva per oltre 60 miliardi, livello non raggiunto da un decennio.

Anche al netto delle discusse regole europee, a mettere alle strette chi tiene le redini dei conti pubblici è il temuto effetto “palla di neve“. Il debito pubblico, che quest’anno ha iniziato a salire in valore assoluto causa impatto del Superbonus, resta sostenibile se il suo costo medio annuale (interessi) è inferiore alla crescita nominale del pil. Negli ultimi anni è andata proprio così: i tassi di interesse erano alti ma l’inflazione gonfiava il pil nominale contribuendo a ridurre il rapporto. Una tendenza destinata a invertirsi a breve: già nel 2026, secondo il Def. A quel punto il rapporto debito/pil tenderà a gonfiarsi senza controllo, a meno di non stabilizzarlo con manovre restrittive. Se l’Italia finisse nel mirino di attacchi speculativi, quali sarebbero del resto le opzioni a disposizione? Esaurito il programma di riacquisto dei titoli di Stato da parte della Bce, a difesa del Btp resterà lo scudo anti-spread Tpi, attivabile però solo a patto che i paletti di finanza pubblica risultano rispettati. E così si torna al punto di partenza. A mali estremi resterebbe infine l’estremo rimedio: un traumatico intervento sul valore del debito in mano ai risparmiatori italiani. O una patrimoniale una tantum. Prospettiva indigeribile per una maggioranza che ha sempre rifiutato l’idea di “mettere le mani” sulla ricchezza delle famiglie.