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‘Ndrangheta in Emilia, confermate in appello le 22 condanne del processo Perseverance: sei sono per associazione mafiosa

Confermate anche in appello le condanne del processo “Perseverance”. I 22 imputati che avevano presentato ricorso, dopo la sentenza di primo grado del novembre 2022, sono stati riconosciuti colpevoli anche dalla Corte d’appello di Bologna presieduta da Roberto Pederiali, con pene sostanzialmente confermate.

Perseverance è una delle due grandi inchieste (l’altra è Grimilde), condotte dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Bologna, che hanno reso evidente la capacità della ‘ndrangheta di saper resistere e rigenerarsi in Pianura Padana, nonostante il duro colpo subito con le condanne del maxi processo Aemilia. La sostituta procuratrice Beatrice Ronchi, già protagonista di quella passata stagione, è la pm che in entrambi i processi ha identificato i nuovi centri di comando delle attività illecite. Da un lato (in Grimilde) a Brescello, sulle rive del Po, con fratelli e nipoti del boss Nicolino Grande Aracri a farla da padroni. Dall’altro (in Perseverance) a Bibbiano, sotto le colline dell’Appennino reggiano, con i fratelli del capo emiliano Nicolino Sarcone a comandare.

Nicolino dovrà scontare 8 anni di reclusione, che allungano l’elenco delle sue condanne. Per reati di mafia era già stato giudicato colpevole nel processo Edilpiovra (10 anni di condanna) e nel maxi processo Aemilia (15 anni). Ma la pena più pesante (30 anni) Nicolino Sarcone la rimedia nel processo per gli omicidi del 1992, commessi in provincia di Reggio Emilia, durante la guerra di mafia che insanguinò Lombardia, Emilia Romagna e Calabria. Processo nel quale a rappresentare la pubblica accusa c’è sempre la sostituta procuratrice Ronchi.

La storia ci dice che la lotta tra opposte famiglie di ‘ndrangheta trapiantate in Emilia terminò nel 2004 con l’uccisione del capo storico Antonio Dragone a Crotone. Secondo il collaboratore di giustizia Antonio Valerio a quella esecuzione, portata a termine con bazooka e kalashnikov, partecipò come sentinella anche Carmine, il più giovane dei fratelli Sarcone, oggi condannato a 3 anni e 2 mesi: “Sono venuti giù in Calabria, chi per fare la vedetta, chi osservazione… Nicolino è la testa criminale della famiglia, ma Carmine non è da meno. Lui ha partecipato nel 2004 agli omicidi di Dragone e di Ciampà. È alla pari dei fratelli, anche se è il più piccolo”.

Sempre secondo Valerio, Carmine era “la faccia bella, il reggente a piede libero della famiglia” mentre Gianluigi, condannato in Aemilia a 14 anni e 6mesi, e in Perseverance ora a 3 anni e 8 mesi, era quella “intelligente”. Ma c’è anche un quarto fratello che sale in cattedra quando gli altri tre sono dietro le sbarre: Giuseppe Grande Sarcone. È il più anziano, nato nel 1961, e Valerio lo definisce “il topo, quello che va a indagare, d’avamposto”. Pur muovendosi nell’ombra è sempre stato un protagonista delle attività illecite di famiglia almeno da quando, secondo la pm Beatrice Ronchi, nella guerra di mafia degli anni Novanta in Emilia doveva essere ammazzato per ordine dei Vasapollo/Ruggiero. Vide morire al proprio posto il giovane Oscar Truzzi, per uno scambio di persona che gli salvò la vita.

Giuseppe è la guida delle attività illecite scoperchiate in Perseverance e la Corte d’Appello stabilisce la condanna, la più pesante del processo, in 16 anni e 8 mesi. Ma c’è anche la sorella gemella di Carmine, Giuseppina, a completare l’elenco dei Sarcone condannati. Per lei l’appello conferma la sentenza di primo grado (1 anno e 4 mesi) per intestazione fittizia di società.

Delle 22 condanne 6 sono per associazione mafiosa. Tra i responsabili dell’organizzazione figura, con la conferma di 16 anni di reclusione, Salvatore Muto, nato nel 1985 e residente a Reggio Emilia. Aveva in mano cinque delle otto società incriminate che emettevano false fatture al ritmo di 10.840 euro al giorno di media, domeniche e festività comprese, a beneficio di 372 diverse società, o persone fisiche, riceventi. Operazioni illecite per 13 milioni di euro compiute tra l’aprile 2018 e il marzo 2021: false fatture che hanno consentito a quell’esercito di 372 società e persone di abbattere le tasse sugli utili e di sottrarre all’erario oltre 2 milioni di Iva. Per la precisione 2.057.473 euro. Chi e quanti hanno cercato e sfruttato questo “vantaggio illecito”, facendo affari “utili e comodi” con i Muto e i Sarcone, ce lo diranno le nuove inchieste aperte dalla Procura ordinaria tra il 2023 e oggi.

Ma Perseverance non colpisce solo l’endemico fenomeno della falsa fatturazione. Il processo ha svelato una sfilza di intestazioni fittizie di quote societarie a cui i Sarcone sono ricorsi per eludere le misure di prevenzione patrimoniale. Un arsenale di pistole detenute per minacciare, intimorire e se necessario per sparare. Ha svelato la brutalità della cosca nella sua capacità di condizionare il territorio e di sfruttare ogni occasione per arricchirsi. Arrivando anche al limite di una nuova guerra di mafia con i potenti vicini/rivali della cosca Farao/Marincola originaria di Cirò (Crotone), insediata stabilmente di qua e di là dall’Appennino tosco emiliano, pur di affermare la propria leadership criminale in entrambe le regioni.

Il processo ha scavato sui reati commessi durante lo svolgimento di Aemilia: dallo sfregio al volto di un carcerato, una ferita lunga 12 centimetri, rimediata nella casa circondariale di Reggio Emilia, alle false testimonianze in aula davanti alla Corte. Ha raccontato le regalie ai poliziotti collusi della Squadra Mobile di Catanzaro indagati nel maxi processo. Ha affrontato le violenze e le intimidazioni legate allo sfruttamento dei lavoratori in una vicenda di caporalato in Belgio già indagata nel processo Grimilde. Alcune intercettazioni sono sufficienti a far comprendere come la ‘ndrangheta del nord Italia sia eversiva e violenta non meno delle altre mafie, pur accreditandosi col volto del fornitore di servizi in campo economico finanziario. Dice Giuseppe Grande Sarcone al telefono: “Adesso gli misuriamo la febbre e vediamo chi è questo. Perché in Toscana comandiamo noi. O si fanno da parte (i Farao Marincola) o gli buttiamo una bomba. Vengo con la pistola, col rischio che mi incarcerano, per non avere niente? Glieli tolgo anche dalle mutande i soldi. Glieli faccio uscire dal buco del c…”.