Cinema

A Napoli con Massimo Troisi, a 30 anni dalla morte un ritratto intimo (non a forma di calesse) dell’attore e regista

di Davide Turrini
A Napoli con Massimo Troisi, a 30 anni dalla morte un ritratto intimo (non a forma di calesse) dell’attore e regista

“La mia donna ideale è la donna di un altro. Perché io sono pigro, non mi va di uscire. Se c’ho una donna che non può uscire, non può andare al cinema o a teatro perché ha il marito geloso a me va bene così. Più che donna ideale ho il marito ideale di una donna ideale, uno geloso insomma”. Ricominciare da Massimo. Ricominciare da qui. A trent’anni dalla morte, il 4 giugno del 1994 a casa della sorella, ad Ostia. Non lontanissimo da dove morì l’ammirato Pasolini. La battuta articolata, intelligente, delicata e deflagrante di Massimo Troisi ce la ricorda, tra i tanti aneddoti e il curioso taglio (non taglio), Donatella Schisa autrice di A Napoli con Massimo Troisi (Giulio Perrone Editore).

Pensavamo fosse un percorso spaziale sulle orme dell’attore napoletano (e in parte il libro lo è), ma alla fine è un ritratto intimo, sottopelle, non a forma di calesse, ma disegnato in forma graziosa e devota, come un San Gennaro sceso momentaneamente dal santino per percorrere in poco più di 25 anni di carriera il tragitto San Giorgio a Cremano, Napoli, Torino, Roma e ancora Napoli.

Ma del resto avete mai sentito parlar male di Troisi? Quel bambino “florido e sorridente” testimonial per la Mellin, poi entusiasta Pinocchio alla recita di quinta elementare, si è fatto sempre amare da chiunque e da chicchessia. Magari sfuggente, realmente pigro, maschera triste e riccioluta, eduardianamente flemmatica nel preparare “o cafè”, eppure capace di attirare attenzione e curiosità con quel groviglio di frasi in napoletano stretto da cui sono sprizzate le battute più dolci della comicità italiana. “È l’unico modo in cui so parlare. Io penso in napoletano, sogno in napoletano, veramente. Quando parlo italiano mi sembra di essere falso”, spiegava Troisi in un’intervista ad Isabella Rossellini.

“La verità è che non ci si può limitare a leggere di Massimo Troisi, lo si deve poter guardare e ascoltare”, aggiunge con attenzione Schisa. “Solo così, seguendone i silenzi, le pause, le continue interruzioni, le ripetizioni, guardandone le mani che si muovono ad accompagnare le parole, a toccare con insistenza il sopracciglio, osservandone gli occhi che ridono ancor prima della bocca, e lo sguardo che si abbassa in cerca delle parole per riempire i vuoti, solo così, dicevo, si può entrare nel suo mondo”.

La Napoli di Troisi inizia proprio dallo stadio Maradona, all’epoca di Massimo, ancora santo, ovvero San Paolo. Poi c’è Villa Bruno a San Giorgio a Cremano dove visse i primi anni di vita, dirimpetto a Piazza Garibaldi che recentemente è diventata Troisi. E ancora: i teatri di Napoli, poi i locali di Roma dove Troisi uno e trino si fece Smorfia con Lello Arena e Enzo Decaro. Alla Chanson di Largo Brancaccio nel 1977 dove per caso salgono i tre in scena e ci rimangono per tre mesi filati. Passa pure la parola e a vederli ci finisce il mondo (dello spettacolo) e i funzionari Rai che ci fanno arrivare Enzo Trapani, Magalli e Voglino.

Ecco allora gli studi tv e il successo di Non Stop, l’Annunciazione e infine il cinema. Una manciata di titoli – sei da regista, una dozzina da attore – in nemmeno quindici anni che consacrano Troisi testimone di una comicità personale peculiare e, aggiunge Schisa “portando alla ribalta una nuova città, diversa da quella comunemente raccontata e conosciuta (…) senza mai inciampare nel luogo comune e senza sprofondare nella retorica mostrò un’altra napoletanità, fatta di un diverso modo di stare al mondo. Un modo umbratile, malinconico, a tratti crepuscolare, di chi è timido, riservato e di poche parole, e quelle poche, incerte e pronunciate sottovoce”.

Troisi impaurito dal riconoscimento della folla. Troisi profondamente politico e con una profonda coscienza di classe (“nel mio lavoro non esiste la paura, al limite se un film va male puoi rimanere amareggiato, te po dispiacè. Ma la paura no. La paura è quando ci stanno sessanta licenziamenti in fabbrica”). Troisi “intellettuale” come affermava Ettore Scola. Troisi amante dei crocchè e delle frittate di maccheroni scambiate con Renzo Arbore. Troisi profondamente religioso. Troisi e le donne. Tante. E tutte, da Jo Champa a Francesca Neri, da Eleonora Giorgi a Clarissa Burt, dalle fedelissima Anna Pavignano a Jennifer Beals, sotto l’assioma troisiano: “L’uomo e la donna sono destinati a non incontrarsi mai”. Troisi apparentemente sfuggente, ma sostanzialmente immobile. In quei set spogli di Ricomincio da tre e Scusate il ritardo, dove il cinema è ancora qualcosa di spurio e sincero, di autentico e intimista. Tra le pieghe di una risata che sgorga florida tra Non ci resta che piangere e Morto Troisi, viva Troisi!. A cavallo di un’improvvisa maturità da attore sui set di Splendor e Che ora è? Eppure sempre sovrastato, Troisi, da un compito più grande di lui (come il macigno dell’ipocondria di Woody Allen), da una sorta di impossibilità ad essere e a fare. Come quando Camillo, il protagonista di Le vie del signore sono finite dice: “Che comincio a leggere mo’ che so grande, che i libri sono milioni e milioni? Non li raggiungo mai, hai capito? Perché io sono uno a leggere, e loro milioni a scrivere”.

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