Dopo l’accordo tra la società e il Fisco dello scorso dicembre, la Procura di Milano ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta e carico di tre ex amministratori di Airbnb, la società famosa per gli affitti brevi, accusati di reati fiscali per il mancato versamento dal 2017 al 2021 della cedolare secca e che aveva portato a sequestrare 779 milioni di euro alla società. Airbnb nei mesi scorsi si è accordata con l’Agenzia delle Entrate per un versamento complessivo di 576 milioni di euro. Ora la parola passa al giudice per le indagini preliminari Angela Minerva. La richiesta di archiviazione è dettata, secondo quanto riportano le agenzie, da una “norma incerta” che crea ‘confusione’ tra sostituto e responsabile d’imposta e dunque i titolari del fascicolo, i pm Giovanni Polizzi, Cristiana Roveda e Giancarla Serafini, hanno preferito chiedere l’archiviazione.
La battaglia legale – Al centro della vicenda, la legge del 2017 per anni è stata in corso una battaglia legale tra l’Agenzia delle Entrate. La norma prevede che le piattaforme facciano da sostituto d’imposta per gli host – i cittadini non professionisti che mettono le loro case a disposizione per affitti brevi sul sito – trattenendo, e poi versando, il 21% sui guadagni che i titolari delle case sono tenuti a pagare al fisco appunto la cosiddetta cedolare secca. Airbnb, incassa infatti solo quelle degli host professionali e le tasse di soggiorno (che versa ai Comuni), mentre tiene per sé i costi del servizio trasmettendo gli utenti il loro margine e fornendo l’elenco di tutti i movimenti per la dichiarazione dei redditi. Questo fa sì che non abbia responsabilità su quanto gli utenti versino o meno al fisco. Se diventasse sostituto d’imposta tutto sarebbe automatico.
La norma italiana era stata impugnata da Airbnb davanti al Tar e poi il Consiglio di Stato aveva coinvolto la Corte di giustizia dell’Ue che aveva stabilito che l’Italia può chiedere alle piattaforme di raccogliere informazioni e dati sulle locazioni effettuate, e soprattutto di applicare la ritenuta alla fonte prevista dal regime fiscale nazionale, ma ha dato ragione ad Airbnb sulla parte relativa all’obbligo di designare un rappresentante fiscale, giudicata “una restrizione sproporzionata alla libera prestazione dei servizi”. Ed è proprio in base a quel verdetto che le indagini sono proseguite ed erano state chiuse lo scorso inverno. Poi la società aveva