Alla fine – come da previsioni – il partito di Mandela dopo 30 anni ha perso la maggioranza assoluta alle elezioni della scorsa settimana in Sudafrica. Tra disoccupazione esplosiva, criminalità, corruzione e tagli dell’energia elettrica, il Sudafrica ha da tempo più di un problema.

Da oggi l’African National Congress sarà costretto, per conseguenza e non per scelta, a fare un accordo con uno o più degli altri partiti che hanno programmi profondamente diversi da quello di chi ha sempre governato e per cui il voto nazionale fino ad ora era poco più di una formalità.

Il nuovo parlamento deve riunirsi entro 14 giorni dalla dichiarazione dei risultati finali e il suo primo atto sarà quello di eleggere il presidente della nazione. I sudafricani non votano direttamente per un presidente. Invece votano per i membri del parlamento che poi andranno a eleggere il presidente.

Senza entrare nei dettagli di possibili scenari futuri – nei programmi elettorali ci sono molte promesse e alcune intenzioni abbastanza fosche – potremmo dire: beh, niente di nuovo, alla fine anche in Africa si fa come da noi. Partiti diversi si metteranno d’accordo per dar vita ad una maggioranza di governo purchessia.

No, non è propri così.

Non è così perché l’esito di queste elezioni porterà a testare per la prima volta la capacità dei politici eletti (l’80% degli elettori sono neri) di creare una forma di governance efficiente capace di sanare il disastro nazionale e più libera dai condizionamenti delle grandi famiglie (Oppenheimer, Rupert, Motsepe) delle grandi major come la Anglo American plc (diamanti, rame, platino) o dalle banche come la China Development Bank e la Hong Kong and Shanghai Banking Corporation. Tanto per citare le prime che mi vengono in mente. Di certo il Sudafrica si sta avviando a una fase di transizione che può essere, appunto, l’apertura a una nuova fase della sua democrazia o il principio di nuove crisi di instabilità.

La democrazia è un percorso, non un modello predefinito. Questo è particolarmente vero oggi, quando l’Africa, attraverso il suo “caos”, sta rivendicando un’autonomia crescente dall’influenza europea e occidentale. Democrazia ed elezioni non sono sinonimi. Le elezioni sono uno strumento per affermare la propria legittimità davanti ai cittadini e alla comunità internazionale, ma ciò non impedisce l’uso successivo di varie forme di persuasione e controllo. Proprio un grande politico sudafricano, Thabo Mbekil, sosteneva che “la democrazia in Africa non deve essere un semplice scimmiottamento dei modelli occidentali, ma deve rispecchiare le realtà e le aspirazioni dei nostri popoli”. Non era il solo.

Si afferma che la “demo-crazia”, per quanto imperfetta, sia il migliore dei mondi possibili. Ma possiamo davvero affermare che questo valga anche per un continente che ha importato forzatamente il sistema rappresentativo e legislativo dai colonizzatori? Per quale motivo l’Africa in futuro dovrebbe accontentarsi di un modello di “democrazia” moderna (per giunta da noi in crisi) sviluppato e sperimentato altrove, anziché provare a creare un proprio sistema, magari migliore? L’Africa potrebbe legittimamente aspirare a inventare una propria “crazia” (dal greco kratos, che significa dominare o comandare) più adatta alle proprie esigenze. In altre parole, potrebbe sviluppare nel tempo un sistema diverso e più complesso di ascolto e partecipazione, interrogando se stessa e le proprie necessità.

Molti intellettuali africani propongono modelli più in sintonia con le realtà culturali, sociali ed economiche dell’Africa. Ad esempio Chinua Achebe, romanziere e saggista nigeriano, ha espresso nelle sue opere l’idea che le forme di governo africane debbano riflettere le tradizioni e le realtà locali piuttosto che imitare ciecamente i modelli occidentali. Oppure Kwasi Wiredu, filosofo ghanese, che ha teorizzato un approccio alla “democrazia consensuale” come alternativa alla democrazia maggioritaria occidentale. Modello che si basa sulla tradizione africana delle assemblee comunitarie, dove le decisioni vengono prese attraverso il consenso piuttosto che il voto della maggioranza.

Johannesburg, che è stata simbolo della liberazione del Sudafrica, lascia intravvedere oggi i primi sussulti di un altro cambiamento. Questa è la seconda transizione del Sudafrica: la prima è stata dall’apartheid alla democrazia, la seconda è oggi.

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