“Siamo gli abitanti delle campagne, delle colline; dei mondi degli Appennini e delle grandi isole. Ci siamo battuti per anni contro abbandono e spopolamento e ora il sogno di riuscire a realizzare conservazione e innovazione viene spazzato via, a causa dell’invasione di migliaia e migliaia di impianti eolici e fotovoltaici a terra, imposti per legge, che trasformeranno paesaggi unici, agricoli o naturali, in una unica ed estesa zona industriale”. Questo stralcio fa parte di “Stop all’invasione”, il Manifesto degli Stati Generali delle Aree Interne contro eolico e fotovoltaico a terra, lanciato ufficialmente a Roma qualche giorno fa, durante gli “Stati Generali Contro l’Eolico e il Fotovoltaico a terra”. Cosa contestano queste associazioni? L’“invasione” di migliaia e migliaia di impianti eolici e fotovoltaici a terra, imposti per legge come strutture “indifferibili e urgenti”, approvati – come vedremo più avanti – grazie a semplificazione burocratiche e decreti-legge ad hoc. Si tratta di migliaia di torri eoliche, a volte di oltre 200 metri ed enormi laghi di specchi grigi di pannelli su terreni agricoli, per una potenza di 12,5 GW di eolico e GW di fotovoltaico (totale 44.500 MW), “neanche la metà di quanto richiesto al 2030 dal Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (Pniec, oltre 100.000 MW)”, mentre le richieste di connessione alla rete sono tre volte tanto (336.380 MW) e “stanno per essere autorizzate e collocate ovunque in Italia”.

Territori sfigurati senza pianificazione

Non si tratta di negazionisti climatici né di movimenti di destra contro la transizione. La protesta è portata avanti dalla Coalizione Articolo 9 (qui tutte le associazioni). Ma nel movimento che va crescendo ci sono anche sindaci, consiglieri comunali, consiglieri regionali e rappresentanti dei territori più colpiti, a loro avviso, dall’impatto delle rinnovabili: come il foggiano, il Salento, la Sicilia, con la provincia di Trapani in particolare; la Sardegna, la Basilicata, la Campania con l’Irpinia e il beneventano; la Calabria con la provincia di Catanzaro, il Molise; infine, nel centro Italia, la Tuscia, la Maremma e l’appennino tosco-emiliano.

Secondo il movimento, torri eoliche e pannelli fotovoltaici hanno sfigurato interi comprensori. Tutto è avvenuto, a loro dire, senza pianificazione, con semplificazioni burocratiche ad hoc, cancellando “l’essenza stessa del paesaggio, degradando e frammentando l’omogeneità degli ecosistemi, riducendo la biodiversità”, scrivono. Un sacrificio ingiustificato, tanto più che, affermano, le emissioni italiane rappresentano lo 0,8% del totale a livello globale.

La questione degli espropri

Esiste, poi, la questione degli espropri dei terreni agricoli, che sta generando situazioni drammatiche. Ne dà una testimonianza Francesca Montemurro, agricoltrice a Grottole in provincia di Matera. “Siamo un’azienda modello, con piccoli allevamenti allo stato semibrado, che produce miele, farine, legumi; siamo anche una fattoria didattica, collaboriamo con l’Università della Basilicata, facciamo agriturismo e abbiamo 10 dipendenti”, spiega. Nonostante ciò, l’azienda è destinataria di un provvedimento di esproprio terreni per far posto a un impianto di FER (Fonti Energia Rinnovabile). “Davvero”, si chiede, “ha senso sacrificare un’azienda come la nostra per favorire multinazionali del settore energetico che non lasciano nulla ai territori e agli stessi agricoltori?”. Ancora più duro è Oreste Rutigliano, già presidente di Italia Nostra. “I grandi giornali parlano di rinnovabili come la salvezza dell’umanità, con toni da predicazione religiosa, ma non si possono cancellare le regole della pianificazione democratica del Paese”, spiega. Si dice fortemente preoccupato anche Gianluigi Ciamarra, presidente della sezione di Italia Nostra di Campobasso. “Eolico e fotovoltaico stanno assumendo dimensioni preoccupanti a discapito del paesaggio, del turismo lento, dell’agricoltura e della biodiversità. E siamo in attesa del decreto ministeriale che fissi principi e criteri per delineare le aree idonee”.

Dalla direttiva del 2003 al decreto Draghi

E a proposito di aree idonee: la storia delle autorizzazioni per le rinnovabili è lunga e tortuosa, ma è utile ripercorrerne brevemente le tappe con l’ing. Francesco Gigliani, consigliere nazionale di Amici della Terra: “La prima direttiva sugli impianti rinnovabili è del 2001”, afferma. “Con il decreto legislativo di recepimento del 2003 si stabiliva la procedura autorizzativa degli impianti, prevedendo che fossero di pubblica utilità, indifferibili ed urgenti e potessero essere installati anche all’interno delle aree agricole”. All’epoca non c’era nessuna forma di pianificazione, anche se il decreto legislativo permise alle regioni di definire alcune aree non idonee all’interno delle quali non era consentito fare impianti rinnovabili. “Le linee guida, tuttavia, uscirono solo sette anni dopo, nel 2010”, continua Gigliani. “La penultima direttiva sulle rinnovabili è invece la cosiddetta RED II del 2018, recepita con decreto legislativo del 2021, con cui si cerca di dare primi elementi di pianificazione e si decide che il governo deve stabilire i criteri per individuare, a cura delle Regioni, aree idonee non idonee”. Il decreto tanto aspettato a distanza di due anni dal termine di legge ancora non è arrivato, ma nel frattempo il governo Draghi, come un altro dl nel 2022, “ha considerato idonee anche tutte le aree esterne alle zone vincolate, stabilendo che, se il ministero dell’Ambiente è favorevole all’impianto, questo può essere approvato dal Consiglio dei ministri anche con parere contrario del ministero della Cultura. Il parere della Regione per i progetti di competenza statale è solo consultivo, le comunità non vengono coinvolte”.

Le richieste delle associazioni alla politica

Di fronte a quella che definiscono “deregulation” e in attesa di un decreto per stabilire le aree idonee che si spera esca a giorni, le associazioni hanno richieste ben precise. Che i pannelli fotovoltaici siano installati solo su superfici edificate, aree degradate o aree di bonifica; che sia cancellata ogni forma di incentivo e bandita ogni speculazione a spese delle comunità locali; che gli impianti possano essere insediati esclusivamente nelle Aree idonee definite dalle Regioni, senza consumo di suolo ulteriore; che fino ad allora si faccia una moratoria per sospendere nuovi insediamenti; che vengano abrogate le norme che consentono gli espropri di terreni agricoli; che le aree più compromesse possano essere oggetto di piani di dismissione degli impianti già realizzati; infine che si realizzi subito la Piattaforma digitale nazionale presso il GSE, prevista per legge e non attuata, cioè una sorta di anagrafe unica di tutti gli impianti esistenti, approvati e in corso di approvazione. Una battaglia che intendono portare avanti, nonostante parte del mondo ambientalista li accusi voler frenare il processo di decarbonizzazione del Paese. Perché, conclude Gianluigi Ciamarra, inserire la tutela ambientale accanto a quella paesaggistica in Costituzione è ridondante: “Se non si tutela il paesaggio, infatti, non si può davvero tutelare l’ambiente”.

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