di Leonardo Botta
Eravamo alla fine degli anni ’70, avevo 7-8 anni. La sera, ogni tanto, guardavo un programma sulla Rai dal titolo “Non Stop”. Un varietà che avrebbe forgiato un’intera generazione di attori, comici e caratteristi, da Verdone a Nuti, ai Gatti di Vicolo Miracoli.
Tra i vari sketch ricordo quelli proposti da un trio napoletano: c’era quello bassino, tarchiato e con la barba, quello belloccio e bravo a strimpellare con la chitarra; e c’era il terzo, alto, mingherlino, con dei nerissimi capelli ricci. Parlava in maniera scomposta, disarticolata, quasi a rate, e indossava un improbabile completino nero con un buffo papillon. Quel trio sarebbe diventato famoso con il nome de ‘La Smorfia’. Erano Lello Arena, Enzo Decaro e Massimo Troisi. Quelli della richiesta di miracolo a San Gennaro (“San Genna’, a me m’abbasta n’ambo, n’a settimana sì e n’a settimana no”; “Neh, San Genna’, tu l’avissa fa vincere tutte ‘e settimane?”) o dell’Annunciazione (“Tutuuuuuu, Tu, Maria, Mari’, farai un figlio Salvatore; Gabriele ti ha dato la buona notizia. Annunciazione, annunciazione!!!”).
Quel tipo riccioluto e mingherlino riapparve dopo qualche anno, prima al cinema e poi sul tubo catodico con la sua opera prima, dal titolo che era tutto un programma: “Ricomincio da tre”. Mi innamorai perdutamente di quel film e del suo protagonista, al punto da non perdere occasione, negli anni a seguire, di rivedere una, due, decine di volte la pellicola. E non ero l’unico: l’Italia intera aveva imparato a ridere con Gaetano, lo sconclusionato, impacciato, timido protagonista. Alcune scene di quel lungometraggio divennero presto dei veri e propri tormentoni: Gaetano e l’amico Lello che disquisiscono di miracoli di serie A e serie B; Gaetano prova a scuotere il complessato Robertino: “Robertì, tu ti è salva’. Jesci, tuocc’e femmene, va’ a rubba’.” “Mamma dice che ho i complessi!”; “E foss’o Dio: tu tiene n’orchestra n’capa!”; Gaetano e la fidanzata Marta, discutendo del nome da dare al loro figlio: “Massimiliano è nu’ nome scostumato. Io stavo pensando a Ugo… pecchè, se Massimiliano sta vicino a mamma e s’alluntana, mentre ‘a mamma ‘o chiamm’, M a s s i m i l i a n o, ‘o guaglione chissà addò è juto”.
L’anno dopo nelle sale arrivò “Scusate il ritardo”, e fu un nuovo cult: il protagonista Vincenzo, disoccupato, al fratello: “Io e nostra sorella jmma pensato di comprare ‘o televisore a mammà p’o compleanno. Je aveva pensato di caccia’ 5 mila lire io, 5 mila Rosetta, e nu milione e doje tu…”; Mentre Anna, la fidanzata (una splendida Giuliana De Sio) lo rimprovera di non dimostrarle sufficiente amore, Vincenzo ascolta i risultati delle partite di calcio, e impreca: “Niente di meno ‘o Napule sta perdenno a Cesena!”.
Dopo il mitico connubio con Benigni in “Non ci resta che piangere” (altri tormentoni, dal “Santissimo Savonarola… con la nostra faccia sotto i tuoi piedi…” a “Chi siete, cosa portate, sì ma quanti siete?; un fiorino!”) arrivarono altri capolavori, dai toni meno scanzonati, dalle tinte in chiaroscuro: “Le vie del Signore sono finite” (Camillo, un disincantato barbiere, nel ventennio fascista, a un’entusiasta signora che lodava Mussolini per aver regolarizzato gli orari dei treni: “Ma allora non bastava farlo capostazione, invece che capo del governo?”), “Pensavo fosse amore e invece era un calesse”. E poi il poetico “Postino” di Pablo Neruda, il suo testamento cinematografico.
Ero in macchina con mia moglie, un pomeriggio del 1994, quando mi disse di aver sentito alla tv che Massimo era morto. Il suo cuore stanco e affaticato aveva smesso di battere cogliendolo nel sonno del suo riposo pomeridiano, mentre era ospite dalla sorella. Il paradiso, quella volta, non aveva voluto attendere. Da allora, quando vado a Napoli passando per la A3, in prossimità dell’uscita di San Giorgio a Cremano, spesso penso malinconicamente al suo illustre cittadino, un ragazzo che aveva studiato da geometra ma che, per fortuna sua e di tutti noi, nella vita aveva fatto tutt’altro.