Il 7 giugno del 1984 a Padova Enrico Berlinguer, segretario del Partico comunista, fu colpito da un ictus mentre pronunciava un discorso elettorale in vista del voto per il Parlamento Europeo. Morì l’11 giugno a causa di un’emorragia cerebrale. Quarant’anni dopo esce il libro “Per Enrico, per Esempio. L’eredità politica di Enrico Berlinguer” di Pierpaolo Farina, sociologo e saggista, fondatore nel 2009 di enricoberlinguer.it, il primo sito web sull’ex-segretario del Pci, e già curatore nel 2013 della raccolta bestseller dei suoi scritti e discorsi “Casa per Casa, Strada per Strada”. Il saggio contiene anche un’intervista esclusiva a Bianca Berlinguer. Pubblichiamo qui un estratto del libro, selezionato dal capitolo intitolato: Contro il capitalismo e la politica dei “pensieri brevi”.

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Mi è capitato molte volte di sentir parlare di Enrico Berlinguer da persone che si dimenticano un aspetto fondamentale della sua azione politica: la lotta contro il capitalismo. E anche quando viene ricordato, lo si accusa di poca modernità per non essersi accoccolato nell’alveo neoliberista, come avrebbero poi fatto i suoi presunti eredi.

Come abbiamo visto, i punti di convergenza con i partiti socialisti e socialdemocratici europei erano molti, ma la strada percorsa da quei partiti non era percorribile banalmente perché era in crisi tanto quanto quella del socialismo realizzato sovietico. Di fronte alla crisi economica del capitalismo fordista, anche il welfare state di matrice socialdemocratica era andato in crisi, non potendo più contare per finanziarsi sulle risorse della crescita ininterrotta dei trent’anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale. Anche per questo motivo Berlinguer rifiutava quell’etichetta a chi gli faceva notare che oramai il Pci poteva definirsi un partito socialdemocratico. Nell’intervista a Oriana Fallaci fu molto chiaro: «Noi siamo comunisti, lei lo dimentica. Lo siamo con originalità e peculiarità, distinguendoci da tutti gli altri partiti comunisti: ma comunisti siamo, comunisti restiamo. Siamo nati e viviamo per combattere il capitalismo, cancellarlo, e lei non può portarmi a ragionare non dico come Brzezinski ma come un liberal americano. O come un socialdemocratico tedesco o come un laburista inglese. Anche se in me vi sono alcuni punti di contatto coi liberal e coi socialdemocratici e coi laburisti, ripeto: rimango comunista».

Anche nella famosa intervista sulla questione morale a Scalfari, Berlinguer fu chiaro: «Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell’economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l’iniziativa individuale sia insostituibile, che l’impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche – e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla Dc – non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di inoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell’attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione».

All’obiezione di Scalfari che non trovava grandi differenze da un convinto socialdemocratico europeo, Berlinguer spiegava la «differenza sostanziale»: la socialdemocrazia si era sempre preoccupata «degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati, e poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne», mentre il Pci aveva messo da tempo al centro della sua politica «non solo gli interessi della classe operaia propriamente detta e delle masse lavoratrici in generale, ma anche quelli degli strati emarginati della società, a cominciare dalle donne, dai giovani, dagli anziani». Per Berlinguer, di fronte alla crisi del capitalismo fordista non bastavano più il riformismo e l’assistenzialismo che avevano connotato i welfare state di matrice socialdemocratica e laburista: serviva un «profondo rinnovamento di indirizzi e di assetto del sistema». E a uno Scalfari che ribatteva «dunque, siete un partito socialista serio…», Berlinguer rispondeva secco: «nel senso che vogliamo costruire sul serio il socialismo».

Nell’intervista ad Alberto Moravia, incentrata anzitutto sul cosiddetto «Strappo da Mosca» e sulle conseguenze che avrebbe potuto avere nel partito, Berlinguer ci tenne a precisare che le recenti posizioni in ambito internazionale non significavano certo «che noi abbiamo abbandonato l’obiettivo di superare il capitalismo», anzi sosteneva che la «coscienza anticapitalistica» della base comunista andasse portata a una «più elevata maturità» affinché potesse essere seriamente bussola e stimolo per l’elaborazione teorica e la condotta pratica del partito.

Che non capisse la modernità è poi un’autentica fesseria. Nell’intervista a Ferdinando Adornato, il Segretario del Pci dimostra di essersi reso perfettamente conto dei cambiamenti in atto nella prima metà degli anni ’80, con gli effetti della rivoluzione informatica in pieno svolgimento: «Credo che dobbiamo ormai considerare come un dato ineluttabile la progressiva diminuzione del peso specifico della classe operaia tradizionale. Le congiunture economiche possono, di volta in volta, accelerare o decelerare questa tendenza. Con le lotte sindacali e politiche si deve poi intervenire in questi processi, per evitare che essi assumano un carattere selvaggio e si risolvano in un danno per i lavoratori. Ma la tendenza è quella. Alcuni traggono da ciò la conclusione che la classe operaia è morta e che con essa muore anche la spinta principale alla trasformazione. Secondo me non è così. A condizione che si sappiano individuare e conquistare alla lotta per la trasformazione socialista altri strati della popolazione che assumono, anch’essi, in forme nuove, la figura di lavoratori sfruttati come i lavoratori intellettuali, i tecnici, i ricercatori. Sono anch’essi, come la classe operaia, una forza di trasformazione».

Berlinguer era perfettamente consapevole che il pensiero e l’azione del movimento operaio italiano ed europeo erano stati influenzati da una visione non totalmente marxista ma che veniva in parte dall’Illuminismo e dal positivismo, in base alla quale la storia dell’umanità era concepita come un progresso continuo verso traguardi sempre più alti di benessere, di cultura, di democrazia. D’altronde, spiegava il Segretario, anche il capitalismo degli anni del «boom economico» postulava l’ingresso dell’umanità in una fase di inarrestabile progresso. Tuttavia, la realtà dei fatti degli anni ’70 e della prima parte degli anni ’80 smentiva tutte quelle convinzioni totalmente ideologiche. E pur avendo coscienza del fatto che la storia dell’umanità era costellata da «interruzioni brusche, rotture, anche involuzioni» e che il pericolo immaginato da Jack London nel «Tallone di ferro» di un ritorno alla tirannide assoluta si sarebbe potuto ripresentare, pur in forma diversa dal passato, Berlinguer restava estremamente convinto che: «bisogna anche avere il coraggio di un’utopia che lavori sui «tempi lunghi» per raggiungere l’obiettivo di utilizzare sempre nuove scoperte scientifiche per migliorare consapevolmente i processi economici e sociali. Cos’è il socialismo se non questo? È la direzione consapevole e democratica, quindi non autoritaria, non repressiva, dei processi economici e sociali con il fine di uno sviluppo equilibrato, della giustizia sociale e di una crescita del livello culturale di tutta l’umanità».

E sull’attualità del «sol dell’avvenire», di cui in quegli anni parlavano più gli scienziati dei comunisti per via delle prime pioneristiche ricerche sull’energia solare, Berlinguer pronuncia parole oggi di un’attualità disarmante:«Quali furono infatti gli obiettivi per cui è sorto il movimento per il socialismo? L’obiettivo del superamento di ogni forma di sfruttamento e di oppressione dell’uomo sull’uomo, di una classe sulle altre, di una razza sull’altra, del sesso maschile su quello femminile, di una nazione su altre nazioni. E poi: la pace fra i popoli, il progressivo avvicinamento fra governanti e governati, la fine di ogni discriminazione nell’accesso al sapere e alla cultura. Ebbene, se guardiamo alla realtà del mondo d’oggi chi potrebbe dire che questi obiettivi non sono più validi? Tante incrostazioni ideologiche (anche proprie del marxismo) noi le abbiamo superate. Ma i motivi, le ragioni profonde della nostra esistenza quelle no, quelle ci sono sempre e ci inducono ad una sempre più incisiva azione in Italia e nel mondo».

Queste parole suonavano anche come una replica a chi, all’interno del Pci, considerava oramai impellente il bisogno di sanare la frattura tra socialisti e comunisti in Italia per trasformare il partito in una classica organizzazione socialdemocratica. Se però la frattura tra socialisti e comunisti in Europa era qualcosa di auspicato anche da Berlinguer nel delineare la «terza via», pur mantenendo le proprie idealità, in Italia non solo era diventato impossibile per la degenerazione delle forze socialiste e socialdemocratiche in «macchine di potere e clientela», ma anche per via della concezione di partito che la destra «migliorista» di Giorgio Napolitano andava prefigurando e contro cui il Segretario era stato chiaro: non solo era contrario a trasformare il Pci in un partito socialdemocratico con le correnti, ma chiunque avesse perseguito quell’obiettivo lo avrebbe fatto contro di lui e con lui contro.

La ragione la spiegò efficacemente in un articolo su Rinascita, intitolato «Partito e società nella realtà degli anni ’80», del 6 dicembre 1982: «il nostro partito dovrebbe cessare di essere comunista, dovrebbe finirla di essere diverso, dovrebbe cioè – come si ama dire oggi – «omologarsi» agli altri partiti, ossia diventare «più democratico», «più occidentale», «più europeo», ma nel senso di divenire, in ultima analisi, una formazione politica come ce n’è tante, inserita nel sistema vigente e protesa, tutt’al più, a parziali e settoriali aggiustamenti al suo interno. […] Veti e sospetto cadrebbero, riceveremmo anzi consensi e plausi strepitosi dai nostri sollecitatori, se ci rinnovassimo nel senso apparente e fasullo da essi suggerito e auspicato, ossia se cambiassimo la nostra natura e divenissimo «uguali agli altri», se abdicassimo alla nostra funzione trasformatrice, dirigente, nazionale, se decidessimo di «recidere le nostre radici pensando di fiorire meglio», ciò che sarebbe – come ha scritto di recente François Mitterrand – «il gesto suicida di un idiota». Non ci può essere inventiva, fantasia, creazione del nuovo se si comincia dal seppellire se stessi, la propria storia e realtà».

Rispondendo poi a chi giudicava positivamente la «politica spettacolo» del craxismo, puntando tutto sull’immagine, il Segretario obiettava: «si finirebbe col divenire non un grande partito di massa moderno, ma un partito elettoralistico, un partito all’«americana», cioè un partito che penserebbe solo a prender voti, che svaluterebbe il lavoro a diretto contatto con la gente per aiutarla a ragionare, a organizzarsi e a lottare, che svuoterebbe di ogni contenuto la milizia politica, che penserebbe solo ad avere più deputati, più senatori, più consiglieri, più assessori, più posti di potere. Ma un partito «rinnovato» a questo modo sarebbe ancora il Partito comunista italiano? Non sono forse l’elettoralismo e la caccia al potere per il potere i vizi degli altri partiti ai quali si vorrebbe che noi ci omologassimo? Conquistare più voti è certo indispensabile; dare più attenzione e realizzare una maggiore presenza nostra nella stampa, nella radio, nella televisione, in tutti i mezzi di comunicazione di massa, è giusto; essere più capaci di fare opinione su ogni problema grande e piccolo, è importante. Ma essere tanti comunisti non è forse ancora più importante? Io credo proprio di sì». Considerata la realtà della Sinistra oggi, come si poteva dare torto a Berlinguer negli anni ’80?

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