di Roberto Iannuzzi *

Sono molti i temi che vengono evocati in relazione alle elezioni europee che si concluderanno questo fine settimana, dalla guerra in Ucraina all’ascesa dei partiti “euroscettici”, dal cambiamento climatico all’immigrazione. Invece un argomento, che viene perlopiù trascurato, dovrebbe spiccare su tutti gli altri. Il cosiddetto “mercato unico” non ha prodotto la prosperità promessa. Numerose regioni del Sud, del Centro, e dell’Est europeo sono in preda alla stagnazione e registrano un peggioramento del tenore di vita. Perfino alcune regioni industriali dell’Europa occidentale sono ormai affette dal declino. E’ una tendenza mai realmente invertitasi dalla crisi finanziaria del 2008, a cui fecero seguito la crisi dell’euro e le politiche di austerità.

L’Ue è sempre più un’Unione delle disuguaglianze, nella quale le tendenze divergenti continuano a rafforzarsi. L’ascesa dei partiti della cosiddetta estrema destra “euroscettica” è in gran parte conseguenza del malcontento diffuso nelle regioni più penalizzate. Le prolungate politiche di austerità, la ridefinizione delle catene di fornitura avviata con la crisi del Covid-19, e la decisione europea di rinunciare all’energia a basso costo fornita dalla Russia, non hanno fatto altro che aggravare la crisi. A ciò bisogna aggiungere i problemi fondativi dell’Unione Europea, in particolare il suo deficit democratico.

Il trattato di Maastricht entrato in vigore nel 1993 è tecnicamente un accordo intergovernativo fra Stati. Il potere è accentrato nelle mani della Commissione Europea e del Consiglio d’Europa, due organi non eletti. Il Parlamento che viene votato in questi giorni, unica istituzione a essere diretta espressione dei cittadini europei, è anche quella con meno poteri, consistenti in gran parte nella facoltà di ratificare e supervisionare l’operato dei primi due organi. Il deficit democratico dell’Ue va a sommarsi a quello dei paesi membri, affetti (come gran parte delle democrazie occidentali) da una crescente crisi di rappresentatività.

Lungi dall’affrontare simili pressanti problemi, le élite politiche nazionali ed europee hanno trasformato il dibattito nell’Unione in uno scontro fra europeisti e antieuropeisti, spesso accusando questi ultimi di collusioni con potenze che minaccerebbero l’Europa dall’esterno.

Invece di concentrarsi sui problemi interni che minano le fondamenta dell’Unione, esse agitano lo spauracchio delle crisi geopolitiche (dall’Ucraina a Gaza) e della generale instabilità internazionale, che sarebbero piombate su Bruxelles senza alcuna responsabilità da parte dei paesi membri. Pretendendo di rispondere così a tali crisi, l’Ue sta ora puntando su una nuova fase di allargamento pur non avendo risolto i problemi causati dalla fase precedente, che l’hanno trasformata in un carrozzone disomogeneo composto da 27 paesi (proprio lo scorso 1° maggio si è celebrato il XX anniversario dell’ingresso di ben 10 nuovi membri nell’Unione, 8 dei quali erano paesi ex comunisti).

Ci sono ora altri 9 paesi candidati all’adesione, nei Balcani e nell’Europa dell’Est, fra cui spiccano Ucraina, Georgia e Moldova, nazioni strettamente legate, storicamente e geograficamente, alla Russia.

Questo processo di allargamento a est, che ricalca per molti versi quello della Nato, è accompagnato da un altro fenomeno: quello della progressiva trasformazione dell’Ue da organizzazione finalizzata in primo luogo allo sviluppo economico degli Stati membri in un’entità la cui struttura è direttamente plasmata da obiettivi di difesa e di natura strategico-militare. Tale cambiamento, strutturato verticisticamente, è stato incoraggiato in gran parte dalla Commissione Europea guidata dalla presidente Ursula von der Leyen, la quale ha introdotto la prima strategia industriale di difesa che l’Unione abbia mai avuto.

Tutto ciò sta avvenendo in una fase in cui quello che finora era considerato, a torto o a ragione, il motore dell’Europa – il cosiddetto asse franco-tedesco – sta attraversando a sua volta una crisi profonda. Essa è dovuta alle grosse difficoltà economiche in cui si dibattono sia Parigi che Berlino, alle quali si sommano le crescenti incomprensioni tra le due capitali in merito alla definizione delle priorità strategiche europee. Il disaccordo ruota attorno al rapporto con gli Usa da un lato, e all’attribuzione della leadership militare nel continente dall’altro. La Germania predilige una relazione preferenziale con Washington e un riarmo in stretta sinergia con il complesso militare-industriale americano.

La Francia si propone invece come portabandiera di un’autonomia strategica europea fondata sul rilancio del settore della difesa del vecchio continente, a sua volta incentrato sull’industria bellica francese e sull’arsenale nucleare di cui dispone Parigi. Proposte che incontrano la freddezza del cancelliere tedesco Olaf Scholz, il quale mal sopporta anche l’attivismo militare del leader francese Macron in Ucraina, in particolare la sua ventilata ipotesi di inviare truppe europee nel paese in guerra con Mosca.

Ancora una volta, tuttavia, al centro della disputa non vi sono i problemi economici e politici che davvero zavorrano l’Ue. Emblematica di questo paradosso è la posizione del presidente francese, il quale a livello europeo si propone come leader di un’Unione strategicamente più autonoma e militarmente più aggressiva, mentre rischia di perdere le elezioni in casa propria a causa dei problemi economici e sociali di cui soffre il suo paese.

*Analista di politica internazionale, autore del libro “Il 7 ottobre tra verità e propaganda. L’attacco di Hamas e i punti oscuri della narrazione israeliana” (2024).
Twitter: @riannuzziGPC
https://robertoiannuzzi.substack.com/

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