Cosa spinge una ricercatrice di 29 anni che ha studiato a Liverpool e Harvard a tornare in Italia? L’amore per il proprio Paese, certo. Ma anche la preparazione, la voglia di fare nuove esperienze e ampliare le proprie conoscenze per metterle al servizio del proprio gruppo di ricerca. “È grazie all’Italia che ho avuto la formazione e sviluppato le capacità per fare ricerca a livello internazionale”. Arianna Menardi, ricercatrice presso il dipartimento di Neuroscienze dell’Università degli Studi di Padova, si è aggiudicata insieme ad altri quattro ricercatori italiani un finanziamento da 300mila euro relativo al Bando AGYR 2023 (Airalzh Grants for Young Researchers) per un progetto di ricerca sulla diagnosi precoce della malattia di Alzheimer, sui processi neurali coinvolti e sulle terapie di miglioramento delle funzioni cognitive.

Durante il percorso accademico Arianna ha avuto l’opportunità di andare all’estero numerose volte. La prima, quando aveva 16 anni, in Nebraska (USA), dove ha conseguito il diploma di High School. Una volta tornata in Italia, al secondo anno di università, vince una borsa Erasmus per svolgere un periodo di studio alla University of Liverpool (UK). Verso la fine della Magistrale viene selezionata per svolgere un’esperienza come Research student a Boston (USA), presso l’Harvard Medical School. “È lì che è nata la mia passione per la ricerca”, ricorda al Fattoquotidiano.it.

Per Arianna chi decide di trasferirsi all’estero lo fa perché, al di là dell’attrattiva contrattuale (che magari garantisce maggiore stabilità e sicurezza economica), c’è anche il desiderio di avere accesso a materiali di ricerca, macchinari e infrastrutture non presenti in Italia. “I fondi alla ricerca sono necessari per garantire stabilità al ricercatore stesso, ma anche nell’acquisizione di tutto ciò che serve a far svolgere i propri progetti senza dover per forza andare altrove”.

Nell’ambito della ricerca le collaborazioni sono un aspetto centrale del successo di un progetto ed è veramente “incredibile il livello di internazionalizzazione” dei maggiori centri. Di conseguenza, anche la basi per l’accoglienza dei ricercatori sono ben stabilite: “Mi sono sempre sentita parte di un team”, spiega Arianna. “È un’emozione poter rapportarsi con gruppi di ricerca conosciuti a livello mondiale, di cui magari si è letto tanto in precedenza o di cui si ammira il lavoro, e poi sentirsi presi in considerazione ed apprezzati”.

Ma in cosa si differenzia la ricerca in Italia e quella negli USA? “Il centro di ricerca di Boston basa quasi l’80% dei suoi sforzi sul reclutamento di partecipanti volontari e l’implementazione di protocolli sperimentali, ogni giorno”. Questo, spiega Arianna, si differenzia dall’esperienza in Italia, “dove la ricerca accompagna l’attività accademica, quindi con porzioni di tempo da dedicare anche alla didattica. Entrambi i sistemi hanno vantaggi e svantaggi”.

E proprio in Italia Arianna ha avuto più volte l’opportunità di confrontarsi con studenti più giovani, cui ha raccontato la sua esperienza. “Penso di avere spronato con successo quelli più incerti – sorride – e a mia volta ho ascoltato le storie di chi era andato via prima di me”. Mai pentita di essere partita? Assolutamente no, risponde. Anzi. “Amo il mio Paese”, continua, e “sono sempre tornata alla mia università madre, quella di Padova, dove il gruppo di lavoro è composto da persone con un grande bagaglio di capacità ed esperienze, che a loro volta hanno svolto diversi anni all’estero: mi sento stimolata nel quotidiano”.

La battaglia contro l’Alzheimer è ancora lunga e difficoltosa. Vi si stanno dedicando centinaia di centri di ricerca in tutto il mondo. “Noi studiamo le alterazioni presenti nella comunicazione tra le diverse aree cerebrali per individuarle prima ancora della comparsa dei sintomi”. Il progetto di ricerca che Arianna sta conducendo vuole definire una mappa spaziale delle alterazioni nel cervello, che guida l’emergere di successivi danni cerebrali: un modo che permetterebbe in futuro di distinguere precocemente tra la malattia d’Alzheimer ed altre forme di demenza.

Se dovesse dare un consiglio ai giovani italiani, quale sarebbe? Sicuramente di cogliere l’opportunità di svolgere un periodo di studio o ricerca all’estero. “Ci sono numerose iniziative che permettono la mobilità a qualunque livello, con la possibilità di ricevere anche un supporto economico. Al di là dell’esperienza formativa, è un’occasione “di crescita personale ineguagliabile che permette di aprire gli occhi, e la mente, al mondo”. Certo, la mobilità nel mondo accademico e della ricerca per Arianna è “necessaria e di grande valore”, ma – conclude – “si deve basare su una scelta volontaria e, in prospettiva, guardando alla crescita lavorativa e personale non deve mai essere forzata”.

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Storia di Daniele, ricercatore giramondo: “La verità è che l’accademia è un sistema classista, in Italia come all’estero”

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