E’ davvero frustrante, a cento anni dall’omicidio fascista di Giacomo Matteotti, questa rincorsa a misurare quanto la presidente del consiglio Giorgia Meloni, erede della tradizione politica dei carnefici anziché di quella delle vittime, riconosca pienamente ciò che studia ogni studente di terza media, ossia che il rapimento e l’assassinio del leader socialista fu opera di squadracce mussoliniane.

Questo inutile rumore mediatico sovrasta, inoltre, anche un altro aspetto dell’impegno di Giacomo Matteotti, totalmente rimosso, ma precedente e fondante l’impegno antifascista: il suo radicale e irriducibile antimilitarismo, per il quale fu vittima dell’esilio voluto dai liberali – ben prima dell’avvento del fascismo – accusato di tradimento della patria e perfino di essere “austriacante”, nella sua lotta antinterventista rispetto a quella ”inutile strage” della grande guerra. Di cui il fascismo sarà, appunto, il frutto avvelenato.

Del resto, anche oggi Giacomo Matteotti sarebbe inserito nella lista nera dei “putiniani” da quegli stessi media che misurano il grado di impossibile antifascismo della premier postfascista.

Riporto qui, tra i tanti documenti, stralci dell’intervento di Giacomo Matteotti su Critica sociale, la rivista socialista fondata da Filippo Turati, nel febbraio del 1915 (Anno XXV, n.3), pochi mesi prima dell’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale, nella quale risuonano questioni di estrema attualità, ora che siamo a un passo dall’ingresso diretto nella Terza: “E’ possibile affermarsi recisamente assolutamente neutralisti senza essere dei ‘sentimentalisti’, senza diventare ‘temerariamente demagoghi’, senza sentirsi dire imbecille?” chiedeva Matteotti a tutti coloro che – allora come oggi – usavano questi epiteti, anche a sinistra, contro i pacifisti.

“Resta fissato in generale che il Partito socialista di ogni paese ha il dovere di opporsi continuamente alla guerra, e al suo strumento creatore, il militarismo. Ogni partito socialista vota contro le spese militari del proprio paese, per significare le aspirazioni internazionaliste dei lavoratori contro i Governi dominanti”. L’antimilitarismo era per Matteotti connaturato al socialismo, tanto nella variante riformista alla quale apparteneva, quanto nella variante massimalista. Prima conseguenza diretta è votare contro le spese militari, ovunque, senza se e senza ma.

Questa opposizione strenua e coerente alla guerra e alla sua preparazione svolge anche una funzione pedagogica alla quale, secondo Matteotti, è chiamato ogni partito socialista, cioè a “preparare la nuova educazione, i nuovi stati d’animo, il nuovo ambiente, nel quale la guerra tra Italia e Austria possa sembrare simile a una guerra tra Milano e Venezia”. Era la visione anticipatrice di un’Europa di pace – come quella immaginata 25 anni dopo da Altiero Spinelli al confino di Ventotene – alla quale si sarebbe dovuti arrivare senza passere per due guerre fratricide, generatrici di regimi totalitari, se i governi del tempo avessero ascoltato i Matteotti, i Liebknecht, le Luxemburg, invece di perseguitarli nel nome del bellicismo che alimentava da ogni parte le propagande di guerra.

“E non veniamo fuori con le ipotesi della guerra di difesa o di una minacciata invasione straniera, a meno che non vogliamo intorbidire le acque” – continuava Matteotti e sembra parlarci: “Una neutralità che fosse imposta al Governo dal Partito socialista avrebbe in questo momento un valore immenso sull’Internazionale di tutto il mondo. Ogni proletario degli altri Stati saprebbe finalmente di avere nel proletariato italiano il fratello pronto ad impedire la strage”.

Un pensiero lungimirante, quello di Matteotti, capace di vedere le conseguenze del militarismo, della corsa agli armamenti e delle guerre che ne sarebbero derivate. “Un’ultima parola per coloro che pensano alla ‘difesa altrui per far cessare le stragi e restituire l’indipendenza ai popoli oppressi’ o dare vittoria ai più democratici” – scrive, parlandoci ancora – “Il militarismo, che è essenzialmente violenza, non può limitarsi a funzione di giustizia; il Bene che se n’è servito diventa Male per continuare a servirsene”. E’ una raffinata analisi sulla coerenza del rapporto tra mezzi e fini – il mezzo della violenza travolge qualsiasi fine per il quale sia usata – assonante con la riflessione coeva di Lev Tolstoj e Mohandas Gandhi, che anticipa quella successiva in Italia di Aldo Capitini, il filosofo della nonviolenza che non a caso indica proprio Matteotti tra gli ispiratori (cfr. Daniele Lugli, Giacomo Matteotti obiettore di coscienza, Quaderno di Azione nonviolenta).

Infatti, continua lucidamente Matteotti, “La vittoria della Triplice Intesa preparerebbe inevitabilmente nuove guerre; il popolo tedesco non potrebbe non preparare la rivincita”, come sarebbe puntualmente avvenuto con l’avvento del nazismo. La violenza estrema della guerra non risolve i conflitti, ma prepara le guerre successive con armi sempre più distruttive.

A guerra in corso, da consigliere provinciale a Rovigo, il 5 giugno del 1916 urlerà ai colleghi della maggioranza che avevano stanziato risorse per le famiglie dei soldati uccisi: “Abbasso la guerra… siete degli assassini!” (cfr. Giacomo Matteotti, Contro ogni forma di violenza, Einaudi). Fu considerato “un pervicace, violento agitatore, capace di nuocere in ogni occasione agli interessi nazionali”, com’è scritto nel Casellario politico centrale, ed esiliato a Campo Inglese, una località nella Sicilia orientale, lontano dal fronte di guerra.

Messo a tacere dal liberale governo Salandra per il suo antimilitarismo, prima di essere ucciso dal dittatoriale governo Mussolini per il suo antifascismo. In piena continuità.

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