Le criticità su un eventuale ritorno al nucleare in Italia che ho esposto alla Camera dei Deputati, in un’audizione presso la X Commissione, sono ben note.
Tutti gli otto reattori costruiti in tempi recenti nel mondo occidentale hanno visto ritardi spaventosi e costi alle stelle rispetto alle previsioni. Per non parlare dei due reattori di Virgil Summer il cui progetto è stato cancellato dopo aver speso nove miliardi di dollari dei cittadini e i cui soldi spesi, per produrre nulla, sono stati riversati sulle bollette degli utenti della Carolina del Sud. Altro che “il nucleare abbassa le bollette”!
Il problema appare difficilmente risolvibile: per quanto sono controllati (per fortuna!) i reattori. Finché l’ultimo elemento non è a posto, il reattore non produce nulla. Si tratta di sistemi estremamente complessi e interconnessi, per cui alla fine inevitabilmente qualcosa va storto.
L’idea degli Smr (small modular reactors, piccoli reattori modulari) è in linea di principio interessante. Ad esempio, anziché un unico grande reattore da 1000 MW si potrebbero costruire dieci “reattorini” da 100 MW in serie (in modo “modulare”) pre-assemblandoli in una fabbrica specializzata. In questo modo, una volta installato il primo “reattorino”, si inizierebbe subito a produrre energia elettrica. Inoltre, se ci fosse una criticità a un modulo, questo potrebbe essere messo da parte e gli altri continuerebbero a funzionare.
Tutto bellissimo. In teoria. Questa narrazione è stata smentita anche da un recente report da parte dell‘Institute for Energy Economics and Financial Analysis (Ieefa). Anche se ci sono dei progetti pilota nel mondo (quattro), bisogna ricordare che la costruzione in serie comporta costruire una fabbrica di Smr. Senza la fabbrica, non esistono Smr, ma solo Sr (small reactors), cioè reattori identici ai tradizionali ma semplicemente piccoli.
Il progetto più avanzato di un reattore modulare era quello di NuScale, che tra l’altro aveva anche ricevuto l’approvazione dagli enti regolatori, che programmava di costruire una serie di sei reattori in Idaho; tuttavia, è stato cancellato nel novembre 2023 perché l’aumento dei costi (nel periodo 2015-2023 sono aumentati da $9,964 per kilowatt (kW) fino a $21,561 per kW) lo aveva oramai reso antieconomico. E questo senza nemmeno aver iniziato la costruzione e nonostante il finanziamento di centinaia di milioni di dollari da parte del governo federale Usa. L’industria nucleare sostiene che la costruzione in serie potrebbe portare a una “curva di apprendimento positiva”, ovvero ogni nuovo reattorino costruito potrebbe abbassare i costi e i tempi di realizzazione dei successivi. Tuttavia, l’esperienza del mondo reale ha dimostrato che la “curva di apprendimento” potrebbe essere anche negativa. Infatti in Francia i tempi di costruzione della sua flotta di reattori nucleari si sono dilatati e i costi sono aumentati. Insomma, non c’è alcuna evidenza che una volta costruito il Foak (First Of A Kind) poi le cose vadano significativamente meglio.
C’è anche un aspetto potenzialmente negativo della standardizzazione, che è noto come “il problema Boeing”, dal nome della criticità che ha colpito gli oltre 700 aeromobili del modello 737 MAX. Infatti, due aerei sono caduti senza apparente motivo e questo ha portato al fermo di tutta la flotta per anni, prima di indentificare e risolvere il problema. Un problema su un singolo reattore si potrebbe moltiplicare quindi su tutti gli altri reattori costruiti in serie. Ora, se si può pensare di riportare alla fabbrica un’automobile o un aereo per correggere un difetto critico, la stessa cosa è più difficile per un reattore nucleare avviato di qualsiasi taglia.
L’idea stessa di reattori piccoli e modulari non è nuova e finora non ha mai preso realmente piede. Ed è degli anni ’50 l’idea di usare metalli fusi come refrigeranti, come il sodio metallico oppure il piombo. Il sodio metallico può causare un incendio a contatto con l’acqua o anche con l’aria. Come ho spiegato nell’audizione, il reattore Monju del Giappone ha prodotto energia elettrica dal punto di vista commerciale per una sola ora prima di essere dismesso definitivamente. Il piombo è molto denso (11,3 kg/dm3) e ha una temperatura di fusione elevata (327,5°C), il che richiede delle tubazioni molto più spesse. Si può abbassare la sua temperatura di fusione tramite la formazione di un eutettico (miscela con punto di fusione più basso dei singoli componenti) in rapporto 45:55 con il bismuto. Questo eutettico fonde a 124°C. Tuttavia, se il piombo è abbondante in natura, il bismuto è invece raro all’incirca quanto l’oro. E nei reattori il bismuto può trasmutarsi in polonio-210 altamente radiotossico. Inoltre, l’eutettico piombo-bismuto può nel tempo interagire con il nickel e il cromo degli acciai, formando ossidi e portando a problemi di erosione/corrosione. Sono tutte questioni in linea di principio risolvibili, ma non certo in tempi brevi.
Chi pensa che gli Smr potrebbero dare un contributo alla decarbonizzazione deve considerare che è estremamente improbabile vedere una costruzione in serie in tempi brevi. Ad esempio, negli Usa le rinnovabili sono cresciute negli ultimi sette anni di 140 GW. E le previsioni sono che nei prossimi sette anni la crescita sia tre volte tanto, tra i 375 e 450 GW. Mentre nei prossimi sette anni è improbabile vedere anche un solo Smr che produca energia dal punto di vista commerciale negli Stati Uniti.
Se si volesse sostituire con gli Smr tutta la flotta degli oltre 400 grandi reattori oggi esistenti al mondo che attualmente hanno un’età mediana di 39 anni, servirebbero qualcosa come migliaia, se non addirittura decine di migliaia di questi reattorini. Visto che siamo ancora alla costruzione di qualche prototipo, auguro buona fortuna a quei politici che propagandano in modo entusiastico gli Smr con ingiustificato ottimismo, forse senza capire che cosa sono esattamente. Ne avranno davvero bisogno.