Con un’espressione piuttosto efficace viene definito un “appalto sartoriale” quel bando di gara che si sospetta formulato per avere un vincitore precostituito o per limitare la platea dei concorrenti. È sulla base di questa ipotesi, che riguarda la sfera amministrativa e non quella penale, che il Tar del Veneto ha congelato la procedura aperta bandita dall’Università degli Studi di Padova per una fornitura di beni e servizi di circa 14 milioni di euro, Iva esclusa. Si tratta di un “accordo quadro” di durata quadriennale “per la fornitura e allestimento di attrezzature e apparati audio video, comprensivo di servizi accessori, per le sedi dell’ateneo”. Praticamente tutta l’apparecchiatura per allestire le aule e i laboratori.

La società per azioni Impianti di Carate Brianza, intenzionata a partecipare, ha ritenuto di trovarsi di fronte a un bando non solo complicato, ma costruito attorno al possesso di una certificazione di qualità, aziendale e professionale, che soltanto pochissimi soggetti economici hanno in Italia. Uno di questi, citato nel ricorso al Tar, ha già la gestione della commessa tecnologica dell’Ateneo e sarebbe avvantaggiato rispetto agli altri per il possesso della certificazione UNI: 11799:2020 che tra l’altro nasce non da un ente pubblico, ma da Siec, un’associazione di diritto privato che l’ha promossa.

Il ricorso fa rumore perché adombra l’esistenza di un bando con il vincitore già designato, ma ancora più rumore hanno fatto le decisioni assunte con grande tempestività prima dal presidente della seconda sezione del Tar, Grazia Flaim, poi dallo stesso collegio. I giudici hanno accolto l’istanza cautelare e sospeso la procedura, fissando già l’udienza del 18 ottobre per discutere il merito della richiesta di annullamento della gara bandita dall’università.

La pubblicazione del bando era avvenuta il 26 aprile scorso, con termine di presentazione delle offerte entro il 27 maggio (data poi prorogata al 17 giugno). Impianti spa, assistita dall’avvocatessa Roberta Bertolani, ha presentato il ricorso ritenendo che la certificazione UNI 11799 costituisca una forma per limitare la partecipazione all’appalto. Di che cosa si tratta? Di una norma che “definisce i requisiti del servizio di progettazione (esecutiva), installazione, configurazione e regolazione, programmazione e verifica tecnica, erogato dalle imprese nell’ambito del mercato innovativo dell’integrazione dei sistemi audio, video e controllo”. Un sigillo di qualità che nasce da imprese private.

Nel ricorso è infatti scritto: “I documenti di gara sono disseminati da requisiti e condizioni di esecuzione legati al possesso della certificazione di cui alla norma UNI: 11799:2020, di recente creazione (5 novembre 2020), posseduta da una manciata di imprese italiane (la maggior parte associate SIEC, associazione di diritto privato che l’ha promossa) e, per quanto consta, da nessuna impresa europea”. Il fatto più delicato e controverso della vicenda è che “SIEC ha, tra i propri fondatori, la società 3P Technologies di Padova, gestore uscente della commessa di cui si tratta, proprio per essere, all’epoca della aggiudicazione, l’unica impresa partecipante in possesso della certificazione in questione”.

Al di là dei tecnicismi, la contestazione è che il bando sia fatto su misura per la 3P, viste le clausole che contiene. Ad esempio, la certificazione UNI diventa un requisito per accedere alla gara. “In questo modo – scrivono i ricorrenti – l’Università introduce un sistema di qualificazione parallelo rispetto a quello ufficiale, definito dal legislatore attraverso una certificazione UNI posseduta in Italia da 8 imprese o certificazioni rilasciate da soggetti di diritto privato”. Invece il Codice degli appalti del 2023 escluderebbe le certificazioni di qualità tra i requisiti di partecipazione, mentre li consentirebbe “quali condizioni di esecuzione o criteri di selezione delle offerte”.

A questo si aggiunge la richiesta di avere eseguito lavori analoghi, con la stessa certificazione, “fino ad un massimo di tre contratti di importo complessivo non inferiore a 3 milioni di euro nel triennio antecedente la data di scadenza del bando”. Un requisito che solo uno o due soggetti economici posseggono. La questione va al di là del caso padovano, anche perché in altre realtà italiane i bandi con la clausola di qualità sono stati annullati, dopo il ricorso della società ricorrente.

La sospensione della gara decisa dal Tar, pur rimandando al giudizio di merito fissato ad ottobre, rileva come abbiano un “fumus di fondatezza” alcune delle censure. “Considerando la recente istituzione della norma UNI 11799… alla data attuale le ditte qualificate risulterebbero nell’ordine di dieci o in numero inferiore e la platea di soggetti in possesso della prescritta esperienza maturata attraverso contratti conformi ai descritti requisiti appare estremamente ridotta e la contestata previsione pare quindi introdurre una pesante limitazione della concorrenza”.

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