Senza dubbio il vento di destra spira anche in Italia, ma una lettura completa dei dati indica che questo vento è una sorta di scirocco: contiene una quantità di sabbia tale che nel medio-lungo periodo potrebbe finire negli occhi delle tre destre guidate da Giorgia Meloni al governo del Paese. Ecco perché.
1) Nella classifica dei voti assoluti, e non delle percentuali, il Pd di Elly Schlein può certamente gioire di più dei Fratelli d’Italia. Tenendo conto del dato dell’astensionismo, per la prima volta sotto il 50 per cento nella storia repubblicana dell’Italia (49,69), il Pd riesce addirittura a migliorare la propria cifra rispetto alle Politiche del 2022, quando votò il 63,91. I dem infatti registrano una crescita di quasi 200mila voti: dai 5.348.676 (19,04) ai 5.517.657 di oggi (24,04). Il partito meloniano, invece, scende da 7.301.303 voti (25,98) a 6.611.435 (28,80) delle Europee. In un turno elettorale servito soprattutto a compattare le rispettive tifoserie l’aumento dem è un risultato importante. Non solo. Risulta vincente pure l’idea del partito plurale sbandierata in campagna elettorale dalla leader del Pd. I dem sono secondi in quattro circoscrizioni e primi in una sola. Cioè al Sud, laddove il capolista riformista Antonio Decaro intercetta praticamente un voto su due dato al suo partito, arrivando quasi a mezzo milione di preferenze. La stessa Schlein è solo terza nei consensi personali, dopo Decaro e pure Bonaccini, ma gli elettori hanno accolto bene il partito plurale di cui la leader è garante. A differenza di quanto accaduto con il Pd lettiano dell’agenda Draghi di due anni fa.
2) Al netto degli spazi che ora si aprono in Europa per la premier, l’unica tra i Grandi a vincere, dal punto di vista domestico il vero successo di Meloni è stato quello di avere berlusconizzato di nuovo la scena politica e riportato in auge un bipolarismo di fatto che sembrava archiviato con il voto ai 5Stelle nel 2018 e per certi versi anche nel 2022. In pratica, un Paese spaccato in due. Da un lato, lei, anzi “noi”. Dall’altro “loro”. “Noi e loro”, è stato il suo refrain in questa campagna europea lunghissima e ha certamente compattato i tifosi-elettori delle tre squadre di destra della maggioranza. Finanche Matteo Salvini può dire di averla sfangata: il generale Vannacci, voluto fortissimamente dal Capitano, ha sfondato ovunque e gli anti-salviniani del partito sono stati zittiti (si pensi al Veneto di Zaia, con la Lega al 13 e qualcosa e FdI quasi al 40 per cento). Detto questo, la premier non deve sottovalutare quanto rimarcato da Elly Schlein nel commento a caldo del voto: nel Paese, l’opposizione (non il campo largo, sia chiaro) è più numerosa delle forze di maggioranza. Il 47,77 contro il 47,55 che arriva al 50 con il risultato dei pacifisti di Michele Santoro. Ovviamente sarà impossibile tenere tutti insieme alle Politiche (dove peraltro il sistema elettorale è diverso) ma nell’ottica del referendum sul premierato è un dato considerevole, alla luce della catastrofe renziana del 2016.
3) Il centro esiste ma dentro le coalizioni e non fuori. Basta guardare la Forza Italia post-berlusconiana al 9,68 e il successo dei moderati dentro le liste del Pd. Extra ecclesiam nulla salus? Solo in parte, ché Renzi e Calenda pagano un eccesso di personalismo e di arroganza politica che non ha eguali in Europa. In ogni caso la vera incognita del centro riguarda il campo largo: chi lo incarnerà d’ora in poi?
4) Il disastro del M5S di Giuseppe Conte, infine. L’ex premier paga lo scarso peso della guerra e della questione morale sulle urne (la malapolitica ingrassa solamente il partito del non voto, a conti fatti) ma ha commesso due errori fatali. Il primo è stato quello di scatenare la competizione per l’egemonia tra gli ex giallorosa. Il risultato delle Politiche alimentava questa ambizione, ma una sfida del genere non può basarsi esclusivamente sul voto d’opinione, soprattutto per una forza politica ormai presente sulla scena da un decennio e passa. Anziché rinchiudersi in una torre eburnea negli ultimi due anni, tra doroteismo e gradimento personale, avrebbe dovuto aprire e radicare il Movimento in una fase completamente nuova. Giova ricordare che i primi due partiti, FdI e Pd, tuttora conservano una struttura novecentesca, laddove la classe dirigente serve soprattutto a tenere botta nei momenti di crisi. Il secondo errore è ancora più grave: che piaccia o no, giusto o sbagliato che sia, Conte ha mantenuto delle zone di ambiguità (fascismo e Rai, per esempio) che non lo hanno fatto percepire come un vero anti-Meloni. E così chi è andato a votare per arginare la destra di Palazzo Chigi non ha scelto lui.