San Ceppato. L’elezioni europee 2024 confermano ciò che si vedeva in Omicidio all’italiana di Maccio Capatonda: la cordicina della partecipazione elettorale con sui si tira giù il santino della rappresentatività politica (in Italia) si è inceppata, si è bloccata, non funziona più. Analizzare significati, segnali, vaticini, con il 49,69% dei votanti è esercizio retorico tiratissimo. A malapena serve per riproporzionare correnti ed equilibri interni a coalizioni, maggioranze (minoranze) e poltroncine ai talk della tv. Ma per capire dove culturalmente e socialmente una popolazione sta andando serve a poco. Le possibilità di voto identitario ed ideologico tardo novecentesche c’erano tutte, a destra (Vannacci) come a sinistra (Salis). C’era perfino un partito Stati Uniti d’Europa (che non ha superato la soglia di sbarramento per avere un eurodeputato) che offriva, appunto, pure il sogno spinelliano come papà l’aveva fatto. E invece nulla. Coma profondo.
Lo sterminio di votanti alle elezioni europee rimane, almeno in Italia, e da tempo, nel campo delle scienze politiche un rebus insolubile nonché estremamente affascinante: dal 2019, con un già pericolante 54% dei votanti se ne sono andati in fumo 2 milioni e mezzo di elettori; dieci anni fa nel 2014 con il 57% eravamo più o meno lì; ma solo rispetto a vent’anni fa, diciamo un paio di generazioni, alle europee del 2004 votava il 72% degli aventi a diritto, cifra pressoché identica alla partecipazione delle politiche del 2018, quelle del boom di Movimento 5 Stelle e Lega, quindi circa 13 milioni di elettori persi per strada se vogliamo anche solo nel breve volgere di sei anni.
I numeri di per sé non parlano, non dicono, non alludono significati precisi, però quando si allargano così a dismisura finendo sotto quella che ad esempio per un referendum è persino una soglia di validità stessa della tornata elettorale (volendo a queste europee c’è un 51% di astenuti che potrebbe ribaltare totalmente i risultati in un amen), segnalano che qualcosa nel meccanismo della rappresentatività elettorale non funziona più.
Se pensiamo che solo durante l’inverno 6 milioni di italiani hanno celebrato il tema politico centrale di C’è ancora domani, il film campione d’incassi diretto da Paola Cortellesi, che vedeva nel voto politico femminile nel 1946 l’apertura delle porte all’emancipazione culturale e sociale della donna, c’è di che rimanere paradossalmente straniti. Insomma, il voto serve o non serve? Certo, quando a poche ore dai magri risultati elettorali si paventano alleanze mutevoli nel Parlamento Europeo tra gruppi ideologicamente agli opposti per mantenere le maggioranze governative identiche alle precedenti (vedi il supposto apporto socialista alla cosiddetta maggioranza Ursula) quello che sembra essere il mantra generale oramai della maggioranza degli italiani (quel 51% di cui sopra) del “tanto non cambia niente” non sembra così campato per aria.
Negli anni Novanta sui manuali e nelle facoltà di scienze politiche nell’ambito dei sistemi politici e partitici europei tutto sembrava già impachettato e incellofanato per i secoli a venire (il concetto di europeismo che stava sempre su comunque) viene quasi un moto di tenerezza. Non è che in questa astensione verso il voto in generale, e verso quello per il Parlamento europeo nello specifico, ci sia qualche cosa che non va nell’idea stessa di Europa orientata più dai mercati finanziari e i suoi indicatori tecnici (spesso inventati) che dal primato della politica sulle cose comuni? E non è che si ragiona in termini di babau totalitari (tutti i partiti di destra si presentano regolarmente alle elezioni per farsi votare mica per fare colpi di Stato), ma banalmente di credibilità di uno strumento che non sembra significare più alcunché.
Se alla prossima tornata di Europee voterà il 37% dei votanti (la percentuale che elesse Bonaccini a governatore dell’Emilia Romagna nel 2014, nda) i provvedimenti presi a Bruxelles quale valore potranno mai avere se non quelle emesse da un notabilato liberale di fine Ottocento?