“La nuova agenda Draghi ha messo in mutande i populismi di destra e sinistra”, titolava un editoriale del Foglio giusto il 18 aprile. Sommario: “Vota Antonio? No: vota Mario! La nuova agenda Draghi non riflette solo un notevole buonsenso trasversale. Ma anche una trasformazione in corso tra molti elettori sul terreno delle priorità”. Gli esiti delle urne hanno detto che un trasformazione c’è effettivamente stata, ma anche che è stata di segno diametralmente opposto a quella indicata dal più “mariano”, e non in senso strettamente religioso, dei quotidiani italiani. E che per l’ex presidente del Consiglio e della Bce – da più parti indicato negli ultimi mesi come autorevole candidato alla guida della Commissione Ue – ora la strada verso Palazzo Berlaymont si è fatta strettissima, se non addirittura chiusa.
In quei giorni gli animi dei suoi sostenitori erano caldi perché poche ore prima Draghi era apparso a Bruxelles sul palco dell’auditorium allestito dalla presidenza europea del Belgio per un incontro sui diritti sociali dell’Ue. Doveva, SuperMario, illustrare report sulla competitività che stava preparando e in un discorso dai toni presidenziali aveva avvertito: davanti al mondo che “sta cambiando”, l’Unione ha bisogno “di un cambiamento radicale“, aveva detto in quella che molti avevano interpretato come la presentazione della nuova “agenda Draghi”.
In cosa consisteva l’ultima versione della “Draghinomics”? Quel 16 aprile l’uomo del whatever it takes – lanciato il 26 luglio 2012 dalla poltrona più alta della Bce che aveva salvato l’economia italiana durante la crisi del debito sovrano europeo – aveva parlato della necessità di “una strategia industriale Ue” per rispondere a Stati Uniti e Cina; dell’urgenza di avanzare “sull’Unione dei mercati dei capitali“, obiettivo che richiede una modifica dei Trattati per raggiungere la quale occorre “essere pronti a considerare di andare avanti con un sottogruppo di Stati”; ma anche dell’opportunità di “intensificare gli appalti congiunti” su Difesa e sicurezza, di combinare l’agenda sul clima “con un piano per proteggere la nostra catena di approvvigionamento, dai minerali critici alle batterie fino alle infrastrutture di ricarica”, e di “razionalizzare e armonizzare ulteriormente le normative” nel settore delle telecomunicazioni “tra i Paesi membri e sostenere, non ostacolare, il consolidamento”.
Immediatamente si era levato il coro di giubilo di chi aveva letto le parole dell’ex premier come un’autocandidatura dalla guida delle istituzioni di Bruxelles. “Presidente della Commissione o del Consiglio Ue sarebbe fondamentale e faremo di tutto per questo”, suonava la carica il leader di Azione, Carlo Calenda, alla presentazione di liste e programma di “Siamo Europei”. Matteo Renzi “è determinato a dare un forte contributo per portare Mario Draghi alla Commissione europea – riferivano alle agenzie fonti di Italia Viva, lasciando briglia sciolta alla fantasia -. Renzi vuole sedere direttamente al tavolo delle trattative e se la lista Stati Uniti d’Europa porterà almeno 5 eletti a Strasburgo, allora sarà la seconda componente dopo i francesi nel gruppo dei centristi”. “Mario Draghi è un orgoglio italiano perché sta dicendo ciò che serve all’Europa e l’unico modo per far sì che l’Europa torni a essere protagonista è seguire le cose che Draghi ha proposto”, aggiungeva di persona il senatore, che d’altra parte negli ultimi 3 anni non ha perso occasione per dirsi “orgoglioso di aver portato Draghi alla guida dell’Italia”. Da parte sua Emma Bonino, leader di +Europa candidata con l’ex sindaco di Firenze, si permetteva una correzione: “Vedo meglio Mario Draghi come presidente del Consiglio Europeo“.
Oggi i risultati del voto europeo dicono che gli italiani, ma non solo, hanno bocciato sonoramente i corifei dell’ex premier. “Stati Uniti d’Europa” (3,8%) e “Azione” (3,3%) non hanno raggiunto la soglia del 4% necessaria per partecipare alla ripartizione dei seggi e quindi non avranno rappresentanti a Strasburgo. Diversamente è andata al Partito democratico che, strenuo sostenitore di Draghi ai tempi della sua permanenza a Palazzo Chigi, per questa tornata elettorale ha evitato di legarsi mani e piedi all’ingombrate nome dell’ex capo dell’esecutivo: “Draghi è una figura autorevole, che ha reso servizio importante al Paese”, aveva detto il segretario Elly Schlein il 6 maggio, ma per l’Ue “noi abbiamo un’altra candidatura, il commissario Nicolas Schmit, che ha ottenuto la direttiva sul salario minimo”.
I venti del populismo e dell’ultradestra usciti dalle urne di tutta Europa dicono anche altro. Tra le prime personalità a salutare con giubilo il report di Draghi il 16 aprile era stara Ursula von del Leyen: “Ci mostrerà la strada per il futuro”, aveva detto la presidente uscente della Commissione Ue. “Nei prossimi 5 anni dobbiamo confermare il primato della nostra Unione come luogo in cui vivere e fare affari“, si era poi lasciata sfuggire forse in un eccesso di onestà intellettuale. Ma se in Germania la Cdu dell’ex ministro della Difesa ha raggiunto il 30% contro la repentina scalata di Alternative für Deutschland e la presidente uscente resta in lizza – per quanto meno salda di prima – per la presidenza di Palazzo Berlaymont, un altro altro illustre fan di Draghi ci ha rimesso il governo.
Il 24 aprile l’agenzia Bloomberg scriveva che “Emmanuel Macron è in contatto con i suoi omologhi europei, tra cui il primo ministro italiano Giorgia Meloni, sulla possibilità di avere un tecnico alla guida della Commissione Ue, come l’ex presidente della Bce Mario Draghi”. Draghi è “un amico formidabile. Attendo con entusiasmo il suo rapporto”, aveva detto pochi giorni dopo il presidente francese. Poi, interpellato su un incarico per l’economista romano alla guida dell’esecutivo comunitario, il capo dell’Eliseo aveva replicato con un sorriso: “Le nomine si fanno dopo il voto, bisogna prima convincere i cittadini sui programmi”. Alle prese con una crisi probabilmente irreversibile di consenso interno, Macron non si era sbilanciato ben sapendo di essere in svantaggio rispetto al Rassemblement National, ma probabilmente non immaginava la Caporetto certificata dalle urne: difficilmente il suo partito Renaissance andrà molto oltre il 15%, a fronte del 30% attorno al quale si attesta la nuova e più presentabile versione del Front National guidata da Marine Le Pen.
Qualcosa di simile era accaduto anche nell’estate 2022 sul molto più limitato fronte italiano. Il 21 luglio Draghi aveva rassegnato le dimissioni dopo un voto di fiducia in cui il M5s si era astenuto e Lega e Forza Italia erano uscite dall’aula (tre partiti che tra mille distinguo avevano sostanzialmente sostenuto l’esecutivo), ponendo fine alla sua esperienza di governo e molti erano corsi a cantare la necessità di proseguire sulla strada tracciata dall’agenda del premier uscente in tema di Pnrr, concorrenza, energia, appalti, giustizia, posizionamento internazionale dell’Italia, riforma della Ue. A ottobre Giorgia Meloni e i suoi Fratelli d’Italia si sono presi il Paese.