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Le Finals Nba e la fine della “magia” del Draft: non ci sono più i numeri 1 di una volta

Queste Finals Nba hanno già i loro volti, a prescindere da come finiranno. Da una parte Jayson Tatum, Jaylen Brown e un roster stellare. Dall’altra Luka Dončić, Kyrie Irving e un nucleo di giocatori non blasonati ma funzionali. Il destino della serie fra Boston Celtics e Dallas Mavericks (attualmente sul 2 a 0) passerà dalle mani di questi campioni, che in tre casi su quattro non sono stati selezionati con la prima scelta al Draft, l’evento annuale dove si scelgono i migliori studenti del college. Tutti, tranne Irving, sono stati chiamati con la terza pick. Con il tempo si sono ritagliati un ruolo nella loro franchigia, ne sono diventati il fulcro e con i grandi veterani ormai avviati sulla via del tramonto sono diventati alcuni dei nuovi volti della lega, alimentando una tendenza sempre più forte: i numeri 1 di una volta, quelli degli anni ’70, ’80 e ’90 in grado di dominare e (stra)vincere, sono in drastico calo. Complice per esempio una maggior quantità di giocatori a disposizione rispetto al passato, il talento finisce per annidarsi anche nei meandri del Draft. Mai come prima quindi l’atto di scegliere “il primo” sembra essere diventato una scommessa, anziché una certezza.

Perle rare – Prendendo in considerazione gli ultimi 50 Draft e suddividendoli a metà, è chiaro come dall’inizio del nuovo millennio i numeri 1 rimasti tali, quelli in grado di spostare gli equilibri e lasciare veramente il segno, si contino sulle dita di una mano. Dietro le spalle di LeBron James, Anthony Davis e per l’appunto Irving, si nascondono cestisti mai dimostratisi all’altezza delle aspettative che gravano normalmente sulla prima scelta. Dall’azzurro Andrea Bargnani a Greg Oden e Anthony Bennet (2006, 2007, 2013), fino al terzetto recente formato da Ben Simmons, Markelle Fultz e Deandre Ayton: sono stati tanti i flop. Gli stessi Dwight Howard, Andrew Bogut e Andrew Wiggins, tutti vincitori di un campionato, non sono andati oltre all’essere un cast di supporto. I colpi degli ultimissimi anni, invece, come Anthony Edwards, Paolo Banchero e Victor Wembanyama sembrano avere le carte giuste per scrivere pagine di storia del basket. Ma se complessivamente questa specie è in via di estinzione, al contrario è in salita il numero di stelle scovate in sordina. Questo accadeva anche nel secolo scorso, però adesso avviene con ancora più frequenza e casi come Tony Parker (28esimo), Kawhi Leonard (15esimo), Draymond Green (35esimo), Giannis Antetokounmpo (15esimo) e Nikola Jokić (41esimo) sono lì a confermarlo. La lista potrebbe andare avanti ancora.

Che sta succedendo? – Il pool di selezione dei giovani al Draft è di gran lunga cresciuto rispetto agli ultimi tre decenni del ‘900. Uno dei motivi è l’afflusso crescente di prospetti internazionali che provano a sbarcare negli Stati Uniti, anche grazie al progressivo abbattimento dei pregiudizi nei loro confronti da parte degli americani. Gli europei si stanno imponendo con forza, dimostrando di poter stare senza problemi nella lega più forte e competitiva del mondo. Non a caso nelle ultime tre stagioni i primi quintetti hanno annoverato giocatori stranieri per 10 volte su un totale di 15 premiati. Inoltre è in costante aumento la cifra di matricole che provano a entrare in Nba senza passare dal college o rimanendovi solo per un anno, anziché farvi un ciclo completo. L’università ha perso quello status di palestra, di “stanza dello spirito e del tempo” anche a causa della comparsa di realtà di sviluppo parallele come la Nba G League. Così facendo i ragazzi si presentano al grande salto con meno anni di esperienza a certificare le loro capacità e questo espone pericolosamente le franchigie al rischio di scegliere in modo sbagliato.

Altra epoca – Insomma, nonostante tutti i progressi moderni nell’analisi, nello scouting e nella raccolta di filmati, il Draft resta un esercizio impegnativo dove sorprese, gaffe ed esagerazioni sono dietro l’angolo. Oggi più che mai, anche rispetto al passato quando il talento comunque non mancava, ma i numeri 1 erano davvero numeri 1. Tra il 1974 e il 1998 la lega ha accolto luminari della palla a spicchi come Bill Walton (1974), Earvin Magic Johnson (1979), James Worthy (1982), Hakeem Olajuwon (1984), Patrick Ewing (1985), David Robinson (1987), Shaquille O’Neal (1992) e Tim Duncan (1997). Leggende che sono prosperate fino a diventare il centro gravitazionale delle rispettive squadre e quei killer spietati capaci di portare a proprio favore i momenti cruciali delle partite. Proprio come Dončić, Tatum e Brown: le prove di come il numero 1 si limiti a essere sempre più soltanto una cifra.