Sanità e liste d’attesa: arriva il Decreto Legge. Forse dobbiamo ringraziare la campagna elettorale se il tema sanità, almeno per il momento, è tornato al centro dell’agenda politica del Paese e se ne parla: da parte del governo, che finora ha glissato sull’argomento, e delle opposizioni, che governando nei dieci anni precedenti hanno dato a loro volta un bel contributo allo smantellamento della Sanità Pubblica. In dieci anni sono stati chiusi circa 200 ospedali, altrettanti Pronto Soccorso, tagliati decine di migliaia di posti letti e quasi 50mila unità di personale sanitario in meno… Il governo Gentiloni con la modifica del titolo V della Costituzione ha posto le basi del Regionalismo differenziato che, ancora di più, acuirà le differenze in sanità tra Nord e Sud del Paese, e la cui realizzazione sarà portata a termine sicuramente dal governo Meloni.

Comunque prendiamo atto che, in un modo o nell’altro, si affronta l’annoso problema delle liste d’attesa; problema che si è intensificato soprattutto nel periodo post Covid, in quanto milioni di prestazioni rimandate non sono state mai del tutto recuperate, anche per patologie importanti come quelle oncologiche, anzi si sono sommate ai nuovi e sempre più numerosi ed emergenti bisogni di salute. La soluzione prospettata, però, non può essere quella di acquistare dal privato accreditato una quantità sempre maggiore di prestazioni. Perché acquistare prestazioni dal privato e non investire sul sistema pubblico e soprattutto sugli uomini e sulle donne che ci lavorano? Considerando che in tutti i momenti critici della pandemia è il Servizio Sanitario Pubblico che ha risposto all’appello.

Da sempre i privati erogano prestazioni a bassa complessità ma ad alto rendimento pecuniario, mentre nel Servizio pubblico trovano risposta bisogni costosi e ad alta complessità. Di questo bisogna tener conto, evitando di trasferire ulteriori prestazioni verso soggetti privati e impoverendo ancor di più il Ssn che perde, così, anche gli introiti dei pazienti che sono tenuti, tramite il pagamento del ticket, alla compartecipazione della spesa sanitaria. Non è, inoltre, sufficiente innalzare la spesa per l’assunzione di più personale per un importo pari al 15% dell’incremento del Fondo Sanitario rispetto a quello precedente. Il tetto di spesa per l’assunzione di personale medico e sanitario deve essere abolito e va parametrato rispetto al reale fabbisogno della popolazione, ristabilendo, nel contempo, una virtuosa staffetta generazionale tra professionisti che permetta di traslare competenze e saperi.

Le assunzioni fatte nel periodo della pandemia sono state tutte a tempo determinato, gran parte dei servizi sono stati ridotti o addirittura sospesi, con ricadute negative sulla salute delle persone. La ripresa delle attività ordinarie a tutt’oggi, complici anche i massicci pensionamenti del personale sanitario, stenta a decollare. Il rischio è che i fondi messi a disposizione per smaltire le liste di attesa siano destinati tutti al privato, anziché andare a rinforzare la ripresa delle attività nel Servizio Sanitario Nazionale, indebolendo ulteriormente l’offerta pubblica e aumentando il potere di mercato dell’imprenditoria italiana o estera che sia. E gli imprenditori, come si sa, hanno come obiettivo il business, non certo la salute.

Per invertire questa tendenza, c’è necessità di proposte comprensibili come ‘meno armi e più salute’, ma nessuna forza politica in campo è chiara sul tema, neanche in campagna elettorale. C’è necessità di investimenti massicci in linea con gli altri Paesi europei, come Francia e Germania, la cui spesa sanitaria rispetto al Pil si attesta rispettivamente sul 10,9% e il 13%, rispetto a noi che siamo al 6,3%, ben al di sotto della media Ocse e sedicesimi in Europa per spesa sanitaria pro capite. Intanto partiamo dal Decreto liste d’attesa e vediamo come va a finire. Ad oggi sono 4,5 milioni gli italiani che rinunciano alle cure perché non possono permettersele.

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