“Abbiamo fatto una campagna elettorale impeccabile sotto il profilo dei contenuti, dei candidati e delle iniziative. Non è bastato“. All’insegna dell’autocritica che da sempre lo contraddistingue, Carlo Calenda inizia così la newsletter rivolta ai suoi sostenitori all’indomani del fallimento alle elezioni Europee, con la lista di Azione ferma al 3,35%, sotto la soglia di sbarramento del 4%. In buona sostanza, secondo l’ex ministro la colpa della disfatta non è del partito, ma degli elettori: “L’ondata di polarizzazione che ha colpito tutta l’Europa ha trascinato l’Italia in una competizione a due “tasti”: rosso e nero. Ha prevalso quest’ultimo”, scrive, ringraziando i votanti “che hanno avuto il coraggio di sottrarsi alla logica del bipolarismo“. Eppure a spiegare il risultato basterebbe un’analisi molto più semplice, diciamo pure banale: l’area di centro si è presentata divisa in due liste-fotocopia, Azione e Stati uniti d’Europa (formata da Italia viva, +Europa e altri partitini), di fatto indistinguibili dal punto di vista programmatico. Una separazione insensata dal punto di vista politico ma “obbligata” dal veto posto da Calenda su un’alleanza con il leader di Italia viva Matteo Renzi, dopo che i due si erano presentati insieme alle Politiche del 2022 per poi divorziare fragorosamente pochi mesi dopo.

Risultato: sia Azione che Stati uniti d’Europa non hanno raggiunto la soglia per pochi decimali, mentre la loro somma nelle urne superera il 7% (e avrebbe consentito di eleggere sei eurodeputati). Un harakiri riassunto dal sondaggista Renato Mannheimer con un articolo su Italia Oggi dal titolo un po’ rozzo ma efficace: “Renzi e Calenda sono due dementi“. Ma il leader di Azione, impermeabile a ogni mea culpa, respinge questa ricostruzione: “Sono consapevole che sarò accusato di non aver voluto la riunione a qualsiasi costo delle forze riformiste. La realtà è opposta. Azione ha sempre voluto dare al Paese un partito liberaldemocratico, ma non a tutti i costi“. E non si lascia scappare l’opportunità di tirare l’ennesima frecciata a Renzi, sottolineando – mal comune mezzo gaudio – che nemmeno lui ed Emma Bonino ce l’hanno fatta: “I cittadini hanno bocciato la strada delle operazioni tattiche, fatte con persone e partiti che non vogliono costruire un’offerta politica comune, ma ottenere dei seggi senza una prospettiva vera. Chi l’ha percorsa ha perso gran parte del consenso che aveva prima delle elezioni”.

D’altra parte Calenda non è nuovo ad accuse più o meno velate agli elettori di aver “votato male” all’indomani delle sconfitte nelle urne. Era già successo dopo le Politiche vinte dal centrodestra: “Noi abbiamo offerto l’alternativa al populismo, gli italiani hanno scelto di andare avanti sulla strada del populismo, diceva. Il 70% degli italiani hanno votato partiti che non hanno mai votato la fiducia a Draghi o l’hanno sfiduciato, partiti che hanno promesso sussidi, bonus e redditi di tutti i tipi e hanno preso posizione contro le infrastrutture, dal rigassificatore di Piombino alle trivelle. C’è un paradosso, perché il 50% degli italiani dichiara di apprezzare l’operato di Draghi. Dobbiamo riflettere sul fatto che apprezziamo Draghi e Mattarella ma poi due terzi degli italiani votano politici che rappresentano il modo opposto di fare politica. Questa dinamica che porta a votare chi urla di più, come fosse il televoto, è quello che ha fatto declinare l’Italia”. “Se finiamo a carte 48, non potranno dire “io non c’ero”. Un concetto ribadito pochi giorni dopo con una nuova “ramanzina” agli italiani: “Bisogna essere consapevoli delle proprie scelte. Hanno votato come se fossero a una kermesse teatrale o al televoto. Prima o poi si renderanno conto che bisognava scegliere chi promette cose praticabili e ha l’esperienza per realizzarle”. Evidentemente non è ancora quel momento.

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