Questi sono solo alcuni stralci dell’intervista a Raffaele Sollecito, pubblicata dal Corriere della Sera a firma della scrittrice Teresa Ciabatti
“In carcere soffrivo di deprivazione sensoriale, non capivo se ero vestito o nudo e ho fatto amicizia con i veri esclusi: i pedofili”. Questi sono solo alcuni stralci dell’intervista a Raffaele Sollecito, pubblicata dal Corriere della Sera a firma della scrittrice Teresa Ciabatti. Sollecito, oggi 40enne, all’epoca del delitto di Meredith Kercher nel 2007 a Perugia aveva 23 anni e frequentava da poco tempo una ragazza, la studentessa americana Amanda Knox. Il primo novembre la barbara uccisione della Kerchner in via della Pergola. La Knox e Sollecito vengono condannati nel 2009 e assolti in Appello nel 2011; assoluzione annullata nel 2013 e nel 2014 Knox viene condannata a 28 anni e Sollecito a 25 anni. Infine l’assoluzione nel 2015 e la condanna a Rudi Guede a 16 anni con rito abbreviato. Sollecito comunque passa quattro anni in carcere e ricorda quei momenti con grande dolore.
“I primi sei mesi sono stato in isolamento per essere protetto dagli altri carcerati poi mi spostano in un carcere di massima sicurezza, non reggevo l’isolamento. Problemi di tiroide, e problemi cognitivi”, spiega Sollecito. “Una specie di deprivazione sensoriale: non distinguevo gli oggetti. Non riconoscevo se ero vestito o nudo. Mi propongono psicofarmaci che io rifiuto. Temo che la mia mente possa essere compromessa, voglio rimanere lucido per studiare (…) L’infanzia è stata la mia vera preparazione all’isolamento carcerario. Da bambino ero chiuso nel mondo dei videogiochi. Quando staccavo proseguivo nella testa la dinamica del gioco, ero sempre con loro, i supereroi. (..) Ho immaginato partite a Final Fantasy VII Special, un nuovo episodio mai esistito di Final Fantasy”. Sollecito torna al ricordo della Knox. Al tentativo di riallacciare un rapporto con lei, ma niente. Alle lettere che invia riceve risposte che “non sono libere”.
Quando le chiede se lei prova ancora qualcosa per lui, la Knox risponde secca di no. A quel punto Sollecito spiega di aver tentato di dimenticarla facendosi “bastare la famiglia e alcuni detenuti”: “In carcere ci sono i clan, farne parte significa essere costretti a difendere il capo, esporsi a rischi, e io non volevo guai, così ho fatto amicizia coi veri esclusi, quelli che nessuno considera e che non entrano in conflitto con nessuno: i pedofili”. “Ho giocato a biliardo, ascoltato le loro storie. Ho passato molto tempo con uno psichiatra accusato ingiustamente dalla moglie di aver molestato la figlia piccola (…) Ci sono detenuti che piangono, altri che si feriscono, mutilano. Ogni notte si levano grida di dolore. Alcuni non si rendono conto di quello che hanno fatto, qualcuno è innocente, altri sanno bene ciò che hanno commesso, tutti soffrono. La sofferenza in carcere rende uguali”.
Nella lunghissima intervista alla Ciabatti, Sollecito parla anche del rapporto con la madre, di quelle che definisce “le inesattezze, le forzature, le ricostruzioni fantasiose” sulla sua presunta colpevolezza nell’omicidio, il suo lavoro odierno come “architetto del cloud” a Milano, delle difficoltà nell’avere rapporti sociali, soprattutto con le donne anche se racconta di un fidanzamento poi concluso, del buon rapporto con la sua terapista.