Talvolta sembra che Sergio Perez rimanga in Red Bull esclusivamente per dimostrare quanto sia strepitoso il lavoro svolto dal suo compagno Max Verstappen. Ovviamente non è così, perché la carriera del messicano dimostra il contrario (6 GP vinti, di cui uno con Racing Point, un secondo e un terzo posto Mondiale), pur non essendo mai riuscito a varcare la soglia del pilota di élite. Però è singolare come i due peggiori GP consecutivi disputati da Perez da anni a questa parte, siano stati inframmezzati dall’ufficializzazione del rinnovo del proprio contratto con il team di Milton Keynes fino al 2026. Anche il precedente rinnovo fu annunciato due anni fa dopo il GP di Monte Carlo, che però Perez vinse. Oggi invece la mancanza di tempismo è quasi sbalorditiva. È vero che nel Principato Perez era stato inopinatamente sbattuto fuori gara da Magnussen, anche se al messicano rimane imputabile il fatto di essere partito così indietro in griglia causa pessima Q1. Ma, prima di Monte Carlo, la sua forma era già calata in maniera sensibile, complice anche una Red Bull non più dominante come in passato. Se Verstappen è riuscito comunque a mettere delle toppe significative nei momenti difficili, Perez si è progressivamente inabissato, come accaduto nella seconda metà delle due precedenti stagioni.
Montreal ha rappresentato il suo weekend horror: seconda eliminazione consecutiva nella Q1, a causa della fatica nel far funzionare le gomme posteriori; danneggiamento dell’ala anteriore a seguito di un contatto con Gasly alla seconda curva dopo la partenza; botto in curva 6 – dopo una gara mai andata oltre il 13esimo posto – che lo ha costretto al ritiro, portandogli anche una penalità (tre posti da scalare in griglia nel prossimo GP) per aver riportato la vettura ai box in condizioni non sicure (in quest’ultimo caso su indicazione del team). Sono lontanissimi gli standard stabiliti dalla squadra prima dell’inizio della stagione, che Perez sembrava riuscire a mantenere pienamente con 4 podi nelle prime cinque gare. Fosse arrivato allora, l’annuncio sarebbe stato meno sorprendente. L’impressione invece è che, in questo particolare e tribolato momento nella storia della Red Bull, i risultati sportivi ottenuti da Perez contino solo relativamente.
Mai come ora la Red Bull si trova sotto pressione, tanto per fattori interni, quanto esterni. Nel primo caso, si tratta dell’ormai arcinota faida in seno alla proprietà, delle lotte tra i clan Horner e Marko, della difficile gestione di papà Verstappen. Una tempesta dalla quale sembra essere uscito vincente proprio la figura che appariva destinata a soccombere, ossia Christian Horner. Di cui Perez è un fedelissimo. E in situazioni così tanto delicate le persone sulle quali contare ciecamente sono merce rara e preziosa. Sul fronte esterno, invece, la rincorsa di McLaren e Ferrari, capaci di ridurre sensibilmente il gap con il team dominante (sì, anche la Rossa, perché tanto sono stati esagerati i peana per la vittoria nel Principato, quanto non deve essere fonte di eccessiva depressione un fine settimana negativo come quello in Canada). Red Bull rimane la squadra più forte, ma non può più permettersi di dilapidare energie in altro che non riguardi la pista. Perez insomma come scelta conservatrice per una scuderia già circondata da una serie di elementi imprevedibili e in continua mutazione.
Perez è il miglior messaggio possibile nei confronti di Verstappen, anche a costo di venire meno a una politica piloti spesso audace, aggressiva, spietata. Ne sanno qualcosa Kvyat, Albon, Gasly, ma anche chi in Red Bull non ci è arrivato e ha dovuto accontentarsi del team satellite, come De Vries. L’insistenza della VCARB sul tutt’altro che performante Ricciardo (colui che, secondo Marko, avrebbe dovuto essere la spina nel fianco di Perez), a scapito del già testato Lawson, tenuto in naftalina come terzo pilota, la dicono lunga su una politica del team fattasi più realista del re. Con buona pace dell’Academy, una delle migliori del Circus, che sforna in continuazione piloti dal grande talento ma dallo scarsissimo futuro (il nome più caldo attualmente è quello di Isack Hadjar, secondo in F2). Perez significa non rischiare con un giovane emergente che potrebbe anche mettersi in testa di dare fastidio a Max, ma nemmeno con un veterano (Sainz, Alonso) ingombrante per carisma e personalità. Senza contare che, nel caso del ferrarista, portarsi in casa un altro padre del mestiere, oltretutto titolatissimo, quando nei paraggi gravita già Jos Verstappen, sarebbe stato un azzardo gestionale di non poco conto.
Perez quindi è una scelta pro-Max tanto quanto potrebbe esserlo anti-Red Bull. Nel senso che, se da un lato si rassicura il proprio pilota di punta confermandogli accanto un conclamato e consapevole numero due, dall’altro si mette in palio il titolo Costruttori. Perché quando la Red Bull ha cominciato a perdere colpi, la forma di Perez è nettamente declinata. Gap più ristretti rispetto ai rivali, senza un pilota che riesca a estrarre qualcosa in più dalla macchina nei momenti difficili (anzi, le due citate Q1 indicano una strada opposta), significa rischiare di non avere l’apporto necessario di punti rispetto a coppie alla pari, o quasi, come Norris-Piastri in McLaren e, dal prossimo anno, Leclerc-Hamilton in Ferrari. Verstappen ha meno bisogno di uno scudiero che sottragga punti agli avversari (anzi, saranno le stesse coppie a toglierseli a vicenda) di quanto ne avrà la Red Bull nelle prossime stagioni per lottare contro le altre scuderie di punta. Salvato il posto, adesso Perez è chiamato al compito di salvare la faccia. Sua, e di chi gli ha dato nuovamente fiducia.