Tu ti ricordi cosa stavi facendo quando sono state distrutte le Torri Gemelle? E ti ricordi quando è stato annunciato l’attacco che ha dato inizio alla Guerra del Golfo? Io sì, ma io mi ricordo anche quando venne data la notizia dell’assassinio di Gianni Versace, per la mia generazione forse il primo esempio di mediatizzazione di un evento così drammatico riguardante un personaggio celebre.
Ecco, mi ricordo un po’ di questi snodi, ma non mi ricordo cosa stavo facendo, né dov’ero, quando è stata data la notizia della morte di Silvio Berlusconi. Non ricordavo naturalmente neanche la data, se non fosse stato per questo giornale che me l’ha ricordata chiedendomi questo contributo. Perché non me la ricordo? È una cosa che riguarda solo me? Io non credo. Nonostante i tentativi di tenerlo in vita anche attraverso gli incredibili manifesti elettorali di Forza Italia (la prima campagna “col morto”), di Silvio Berlusconi siamo destinati a dimenticarci molto in fretta. Come in un gigantesco e collettivo processo di rimozione che ci salvi dal dolore di ricordare cosa è stato Berlusconi e cosa è stato il berlusconismo, ma anche di cosa non è stato l’anti-berlusconismo, di cosa avrebbe dovuto essere.
La rimozione, dicevo, perché il caso Berlusconi ha inflitto una ferita profonda a questo paese, cambiando per sempre sia chi lo votava (e idolatrava) sia chi non lo votava (e lo denigrava). Chi lo votava lo aveva trasformato in un santino, ma non i santini noiosi e virtuosi, bensì un santino dell’italianità (o di quella che quel ‘pubblico’ – termine che non è scelto a caso – pensava fosse l’italianità): guascone, spregiudicato, borderline, pirata e signore (si fa per dire), pregiudicato ma simpatico, che vuoi che sia se evade le tasse, dà da mangiare a tante persone, e così via. Un Alberto Sordi in grande, ché Sordi (ma non Sordi: i suoi personaggi) era il furbo singolare, Berlusconi era il furbo leviatanico, che comprendeva in sé tutto il popolo, lo incarnava. Non è un caso che si possa definire il primo grande populista sulla scena italiana, e – se non globale – almeno occidentale. L’identificazione con Berlusconi era totale.
Tuttavia, si diceva, ha cambiato per sempre anche chi non lo votava e lo osteggiava aspramente, perché ha consentito a quel popolo anti-berlusconiano di poter pretendere una politica migliore. Ha messo per la prima volta quel popolo di fronte ai dilemmi dello strapotere mediatico e della concentrazione degli interessi, sollevando un tema che sembrava nuovo ma che nuovo non era, e che però diventava urgente in ragione del parossismo berlusconiano: chi controlla i media vince. Certo il berlusconismo e l’anti-berlusconismo si sono trovati su un medesimo terreno, quello della semplificazione della politica. Al grado zero di inadeguatezza rappresentato da Berlusconi doveva essere contrapposto il grado uno, il requisito minimo della politica: l’onestà. Ma questa riduzione della complessità è un processo che non nasce con Berlusconi. Certo è stato Berlusconi a cavalcare gli aspetti più estrinseci e superficiali della politica, a partire dalle sue celebri indicazioni di dress code e toelettatura dei candidati (niente mani sudate, niente barba, etc.).
Ma in mezzo tra chi lo votava idolatrandolo e chi non lo votava stigmatizzandolo, c’era chi (forse) non lo votava, ma non lo ostracizzava, anzi lo normalizzava, ne difendeva le prerogative. Chi gli prometteva, per esempio, l’agibilità politica (nonostante Paolo Sylos Labini); chi gli garantiva che le aziende non sarebbero state ‘toccate’; chi minimizzava il conflitto di interessi e la questione dello strapotere editoriale. Si diceva prima di cosa avrebbe potuto essere l’anti-berlusconismo, e non è stato. Perché i normalizzatori di Berlusconi appena citati avevano come bersaglio, più che l’ex Cavaliere, proprio l’anti-berlusconismo. Chi ha denunciato l’anomalia berlusconiana è stato sostanzialmente lasciato solo: le élite italiane hanno accolto Berlusconi senza tante remore.
Ora siamo alla retromania: un anno dopo, qualcuno prova a depurare la storia dall’anomalia berlusconiana, dipingendo il tycoon di Arcore come un ‘bravo imprenditore’ (e aggiungendo solo a mezza bocca e con troppa pietà ‘un politico mediocre’). Invece Berlusconi è stato la dimostrazione che l’impresa senza l’aiuto dello Stato (o di qualche politico) non esiste. Lo sapeva perfettamente lui stesso, e per questo decise di ‘scendere in campo’. La verità è che si è trattato di un politico pessimo e di un imprenditore le cui vicende hanno riempito le cronache giudiziarie (con condanna definitiva). Ma è una retromania fiacca: la rimozione, nel bene e nel male, è già a uno stadio avanzato.