di Michele Tamburrelli*

I giovani sono considerati una categoria a forte rischio di estinzione nel nostro paese. Sono sempre meno a causa dell’invecchiamento della popolazione, fanno fatica a trovare lavoro e non avranno vita facile una volta raggiunta l’età pensionabile! Questo, ad esempio, è un tema di cui si parla poco e che non riguarda solo i giovani, ma avrà una ricaduta importante sul tenore di vita della popolazione nei prossimi anni.

L’ingresso sempre più ritardato nel mondo del lavoro, le carriere discontinue, il precariato e i redditi dei lavoratori nel nostro paese, tra i più bassi d’Europa, mettono a grave rischio le pensioni degli italiani, soprattutto dei più giovani.

Secondo la Ragioneria Generale dello Stato il tasso di sostituzione, cioè il rapporto tra l’ultimo stipendio percepito e la pensione, è oggi pari a circa il 75% ma si prevede una graduale e costante diminuzione fino ad arrivare al 67,6% nel 2050; sempre che si abbia un rapporto di lavoro stabile, senza buchi contributivi.

Una delle soluzioni al potenziale impoverimento della popolazione è la previdenza complementare. Si tratta di una integrazione alla pensione pubblica, destinando a questo scopo il trattamento di fine rapporto e dei versamenti volontari periodici che beneficiano anche di un trattamento fiscale di favore. Ogni lavoratore può aderire alla previdenza complementare in qualsiasi momento: il datore di lavoro, alla costituzione del rapporto, sottopone al lavoratore la possibilità di destinare il Tfr e quote di adesioni, in parte erogate anche dal datore di lavoro, al fondo pensione integrativo. Quasi tutti i contratti collettivi nazionali di lavoro hanno un loro fondo pensione di riferimento (fondo negoziale). Il lavoratore può aderire anche ad un fondo privato non contrattuale (detto anche “aperto”), ma così facendo perde la quota di versamento da parte del datore di lavoro. Per esempio, nel Ccnl del terziario, un addetto impiegato a tempo pieno al 4° livello (una buona fetta degli occupati nel settore), in caso di adesione al fondo negoziale, riceve dal proprio datore di lavoro un versamento annuale di circa € 370 che con i fondi aperti non otterrebbe.

Nonostante gli indubbi vantaggi, solo il 36,2% della popolazione lavorativa ha aderito ad una forma di previdenza complementare (dati Covip su valori dell’anno 2022). Degli aderenti il 18,8% ha meno di 35 anni, il 48,9% ha una età compresa tra i 35 e 54 anni, mentre il 32,3% ha più di 55 anni. Una ampia fetta della popolazione lavorativa italiana, soprattutto i giovani che ne avrebbero più bisogno, non ha ancora quindi optato per una forma di previdenza integrativa.

Oltre all’evidente valore sociale, aderire alla previdenza complementare, destinando almeno il Tfr e una parte della retribuzione, ha vantaggi fiscali significativi. Gli importi derivanti da lavoro dipendente destinati alla previdenza complementare sono deducibili per un importo pari a € 5.164,57 con un risparmio fiscale pari all’aliquota marginale Irpef. In altre parole, se si decidesse di tenere per sé questo reddito anziché destinarlo al fondo di previdenza complementare, l’importo verrebbe tassato per un’aliquota pari all’ultima porzione di reddito percepito nell’anno. Supponiamo che un lavoratore percepisca un reddito di € 30.000 annui. Sugli importi compresi tra gli € 28.000 e € 50.000 l’aliquota Irpef è del 35%. Se si destinano € 2.000 alla previdenza complementare, il reddito che verrà tassato sarà € 28.000 (€30.000 – €2000) per cui il risparmio sarà pari all’aliquota del 35% su € 2000, cioè € 700 annue.

Anche i rendimenti della gestione economica del fondo pensione e l’erogazione della rendita godono di un trattamento fiscale favorevole. Perché allora un’opzione così vantaggiosa viene scelta da pochi? Perché i datori di lavoro, che in questi anni stanno facendo di tutto per impostare politiche di welfare e rincorrere esenzioni fiscali, spesso dimenticano di promuovere la previdenza complementare nelle loro aziende?

In parte si può giustificare questo comportamento con un meccanismo psicologico che spinge le persone a preferire un vantaggio immediato ad uno futuro: nell’era moderna del “tutto e subito”, questo fenomeno è sempre più marcato. Ma va anche ricordato che i lavori spesso si caratterizzano per incertezza e discontinuità, disincentivando quindi le scelte di lungo periodo.

Se la previdenza complementare è un valore sociale e consentirebbe un tenore di vita più adeguato, cosa si può fare per rendere più praticabile la scelta dell’adesione? Qualcuno ha avanzato l’ipotesi di un “automatismo reversibile”: il lavoratore si troverebbe automaticamente iscritto al fondo negoziale una volta assunto e il datore di lavoro dovrebbe versare contestualmente le quote a suo carico. Rimarrebbe sempre la possibilità di optare per il recesso. Se si conviene sul fatto che la pensione integrativa potrebbe contrastare il futuro impoverimento della popolazione pensionabile, questo meccanismo dovrebbe essere considerato plausibile. Il rischio che, in pochi anni, al tema dell’invecchiamento della popolazione si aggiunga anche quello del suo graduale impoverimento è troppo alto per non pensare, sin da oggi, a soluzioni programmatiche.

* Laureato in diritto del lavoro e relazioni industriali presso la facoltà di Scienze Politiche di Milano, si è occupato della materia fin dai primi esordi nel sindacato. Ha diretto per diversi anni un ente di formazione riconosciuto.

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