Le Considerazioni finali della relazione del governatore della Banca d’Italia costituiscono un punto di osservazione privilegiato per capire l’economia italiana. Due sono gli aspetti che hanno attirato maggiormente l’attenzione: l’osservazione sul declino della produttività dell’industria italiana e il richiamo ai problemi della finanza pubblica. Temi tradizionali, ma di rinnovata attualità.

Siamo destinati al declino e alla stagnazione economica? Su questo fronte il governatore vede accumularsi nubi tempestose, anche perché il ristagno dura da almeno un quarto di secolo trascinando verso il basso salari e redditi. Si tratta di un problema che non affligge solo l’economia italiana, ma è comune alla Ue che ha visto calare inesorabilmente il suo peso nell’economia mondo.

Ad esempio, in una recentissima pubblicazione, Quelle France en 2050?, l’economista Patrik Artus e la giornalista economica Marie Paul Virard hanno individuato nella scarsa produttività francese il magro destino della società e dell’economia francese da qui al 2050. E anche la tecnologia non sembra offrire una ovvia via di soluzione. L’espansione del settore terziario, trainato da internet o altro input tecnologico, è caratterizzata da attività in generale a basso valore aggiunto, e quindi da bassi salari. Che fare allora?

Per il governatore la via maestra è quella di aumentare la quota di investimenti in ricerca e sviluppo, ma questa è la solita musica che oramai sentiamo da decenni. E in quali settori poi? La palla, per così dire, passa alle imprese ma anche alla politica industriale. Servirebbe qualcosa di nuovo. Nel 2022 Biden ha messo sul piatto della bilancia 280 miliardi per il Chips Act e 367 per l’Inflation Reduction Act. Gli Usa fanno sempre le cose in grande, mentre la Ue sta a guardare.

Ma è sul secondo punto, le osservazioni del governatore sulla necessità di ridurre il debito pubblico ma non dei privati, che i commentatori si sono concentrati con notevole plauso. Che anche il governatore sia stato attratto dalle sirene bocconiane della fantasiosa, ma perniciosa, austerità espansiva? L’idea, cioè, che comunque i tagli alla spesa pubblica producano, di per sé, un aumento del Pil. Qui il governatore è stato poco chiaro, o se vogliamo sibillino.

Ovviamente siamo di fronte ad un bivio amletico: o ridurre le spese oppure aumentare il peso del fisco. Allora posso aiutare il lettore interessato facendo due conti. La spesa pubblica si muove essenzialmente con tre voci: la spesa per servizi (personale e beni), la spesa previdenziale-assistenziale e gli interessi sul debito.

Non c’è dubbio che anni di spending review abbiano ridotto la spesa per il personale e per gli acquisti della PA che sono, a netto dell’inflazione, oggi inferiori a quelli del 2010. E lo si vede nella qualità dei servizi, nettamente peggiorata. A volare è stata invece la spesa previdenziale e assistenziale, +30% sempre dal 2010, ora a quota 397 miliardi, 24% del Pil. Sulla spesa previdenziale, le pensioni, è intervenuto il freno Fornero altrimenti a quest’ora la spesa sarebbe lievitata di decine di miliardi. Lo stesso non si può dire invece di quella assistenziale, usata da ogni governo per scopi elettorali. Questo è il noto e discutibile populismo della spesa.

Ma poi c’è anche quello della riduzione delle entrate di stampo liberista, ancora più pericoloso. In questi anni i governi hanno lavorato per ridurre il peso dell’imposta sul reddito, dalla flat tax alla rimodulazione delle aliquote, ai condoni fiscali e molto altro. Anche qui la perdita per le casse dello Stato è stata enorme. Il governatore si è limitato a criticare il populismo tradizionale, quello delle spese, ma nulla ha detto sul quello delle entrate.

Ad esempio, una parola (di critica) poteva essere spesa sull’irrazionale riforma fiscale del governo di destra-destra che allarga a dismisura il debito pubblico. Ma ancora di più una considerazione andava fatta sulla doverosa tassazione degli extraprofitti, bancari e industriali. I governatori sono sempre stati pronti a incolpare i salari per l’elevata inflazione, ora che è guidata dai profitti si sarebbe dovuta mantenere la stessa oggettività.

Il caso degli extraprofitti bancari poi è da manuale. Non è stato elegante che anche il Governatore della Banca d’Italia abbia in qualche modo giustificato le rendite parassitarie delle banche (elogiandone la ritrovata redditività!) generate dalle scelte di politica monetaria della Bce. Casomai il governatore doveva spendere due parole per difendere i risparmiatori e i debitori, vittime di trame chiaramente oligopolistiche.

Il terzo fattore poi, la spesa per interessi, ha cominciato a muoversi di nuovo creando nuove spine per il sempre più rabbuiato Giorgetti. Se poi, per tornare al tema del debito, c’è qualcuno che pensa ancora che, di per sé, il debito pubblico sia una zavorra per l’economia, allora basta guardare all’esperienza americana per capire l’errore veramente grossolano. Nell’ultimo decennio gli Usa hanno imboccato decisamente la via del debito pubblico, accelerando con Trump. Il debito Usa era di 18.141 miliardi nel 2015 che sono diventati 34.000 nel 2023 secondo i dati della Federal Reserve Bank di St. Louis, al 120% del Pil.

Paradossalmente il paese più ricco al mondo ha il più elevato debito pubblico. Nel frattempo l’economia americana non ha mostrato alcuna difficoltà e ha viaggiato a passo doppio rispetto a quella europea. La retorica del debito dovrebbe spiegare questo ma non è in grado di farlo. Si è verificato invece il celebre effetto keynesiano: l’aumento del deficit spending ha spinto l’economia, e non l’inflazione.

Ritornare ad una ragionevolezza fiscale si può e si deve, anche perché l’Europa ci sorveglia, partendo però da chi ha lucrato in questi due anni di iper inflazione, non pensando sempre e solo ai tagli.

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