Un lungo tubicino trasparente attraversa il pavimento di un appartamento di Parigi. Dentro scorre e stantuffa l’ossigeno che si infila con una cannula nel naso di Toni Negri. Il frastuono e il silenzio di Giampaolo Penco (in anteprima mondiale al Biografilm Festival di Bologna 2024) inizia, e si conclude, con un ellissi che è anelito di vita, sottile, tenue, come una fiammella umana e della storia che si sta definitivamente spegnendo. Negri, morto a 90 anni il 16 dicembre del 2023, è una delle figure politiche ed intellettuali italiani più discusse, controverse, amate/odiate dell’ultimo scorcio di Novecento. Il “cattivo maestro” o, come per diversi magistrati inquirenti e tre quarti di sistema partitico di fine anni settanta l’ispiratore del brigatismo rosso, ha vissuto da fuggitivo e “sans papier” a Parigi nei primi anni Ottanta, dopo che la Camera aveva votato a favore dell’autorizzazione a procedere verso quel neo deputato sui generis del Partito Radicale. Poi tornato in Italia, e in galera per altri anni (in tutto saranno 11 e 14 quelli di “esilio”), Negri nella capitale francese ci tornò negli anni duemila, oramai vecchio, di nuovo da mezzo cittadino (“non ho nazione o patria, sono un euronomane”, spiega nel documentario).
Penco ne raccoglie gli ultimi istanti di esistenza, ne osserva l’ancora arcigna determinazione, ne scruta frontalmente una tonalità brusca e autunnale. “In quella casa a riprenderlo sono rimasto una volta sola per due giorni interi. Altre sequenze meno recenti sono state riprese dal mio collega Benoit Peytavin”, spiega a FQMagazine il 70enne regista triestino. “In mezzo c’è stato il Covid e non abbiamo voluto rischiare la salute di Toni che intanto faceva avanti e indietro in ospedale per problemi ai polmoni”. Penco a Negri ci arriva quasi per caso. Il leader di Potere Operaio venne condannato a 12 anni per associazione sovversiva, partecipazione a banda armata, concorso morale in rapina. Decine di reati ipotizzati dal magistrato Calogero, come 17 omicidi e l’essere il mandante dell’omicidio di Aldo Moro e il telefonista che avvisò la famiglia del leader DC della sua uccisione, caddero durante il processo. Negri, che si è sempre dichiarato innocente e ha definito le accuse delle invenzioni, spiega nuovamente nel documentario: “innocente non mi sono mai sentito, ho invece avuto la responsabilità di pensiero e di scrittura che però non ha nulla a che fare con il codice penale”. La macchina da presa di Penco segue con garbato rispetto Negri. “Non so fare agiografie. Non appartengo al mondo di Toni, ma non ha senso nemmeno stare a chiedere se condivido o non condivido il suo pensiero. Non ricordo nemmeno all’epoca cosa pensassi di lui (Penco negli anni settanta era un ventenne, Negri oramai un adulto più che quarantenne ndr). Io ero un solitario, un cane sciolto, conoscevo chi stava in Potere Operaio e non ne facevo parte. Però di una cosa sono certo: Negri e decine di suoi compagni (molti sono intervistati nel doc, ndr) sono la classe politica che ci è mancata negli anni successivi”.
Penco costruisce certo un vis a vis esclusivo e vibrante con Negri, ma è capace di dare vigore ad una doppia pulsazione narrativa: una ricostruzione storico-politica densa, talvolta inedita, dell’entourage di lotta e pensiero attorno al filosofo patavino, e di una memoria di avvenimenti quotidiani di quegli anni che ancora stupisce (pensate agli “espropri proletari” che facevano tutti, mica solo gli antagonisti); come ad una sorta di cronaca familiare che coinvolge non proprio in un clima disteso sia l’ultima moglie, Judith Revel, sia le due figlie: Nina e soprattutto Anna che è la primogenita e quella che più ha sofferto, in chiave di depressione e distanza, il claudicante rapporto con il padre (“non è stata mai pietosa verso di me”, la elogia quasi burbero Negri nel film). Eppure in questa cavalcata di oltre mezzo secolo, dalle origini contadine del protagonista, poi studente adolescente che scala Azione Cattolica, infine diventa socialista, operaista e marxista, c’è qualcosa che salta all’occhio oltre le immagini. Quel titolo – Il frastuono e il silenzio – che esemplifica la contrapposizione tra il rumore che fece il caso Negri tra gli anni settanta e ottanta e il silenzio, tutto italiano, che si creò attorno a lui all’inizio del nuovo secolo mentre nel mondo vendeva un milione di copie di Impero, primo volume di una tetralogia scritta con Michael Hardt dove peraltro la globalizzazione superà in importanza qualsivoglia sovranità nazionale. Infine, nel lavoro di Penco non c’è quell’inseguire pedante un giudizio morale o valoriale verso una figura ideologicamente lontana, ma allo stesso tempo filosoficamente alquanto vicina. “Quando frequentai la facoltà di Lettere nel 1977 facevo parte dei collettivi studenteschi e anche per noi quando arrivavano quelli del Partito Comunista in loro vedevamo i giovani di potere”, chiosa il regista, “loro la mettevano giù dura: se non stavi con loro, se non avevi la loro tessera non potevi lavorare in Rai, non potevi fare carriera all’università, non potevi persino lavorare con Franco Basaglia”. Il frastuono e il silenzio avrà la sua prima al Biografilm domenica 16 giugno alle ore 17 al Cinema Lumiere di Bologna.