Con il mito della democrazia occidentale, a Gaza muore anche quello del “grande giornalismo”. The Intercept ha analizzato “termini chiave” in oltre mille articoli (New York Times, Washington Post, Los Angeles Times), tra 7 ottobre e il 29 novembre: ne emerge un’adesione acritica alla narrativa israeliana e un pregiudizio anti palestinese e deumanizzante ancora più evidente nei tre principali media via cavo (Cnn, Msnbc e Fox), conclude The Column. Le voci palestinesi? Assenti da 50 anni.
Bambini e no
“Cimitero dei Bambini” è la definizione delle Nazioni Unite che forse meglio coglie la specificità del genocidio in corso, ma sulla stampa statunitense scompare – tra slittamenti semantici e omissioni. L’Intercept rileva che “solo due titoli degli oltre 1.100 articoli contenuti nello studio menzionano la parola “bambini” in relazione ai bambini di Gaza”.
In tv (The Column) tra il 7 e il 24 ottobre i bambini israeliani uccisi il 7 ottobre (circa 30, per altri 36) sono menzionati 1.221 volte, gli oltre 3.000 bambini palestinesi 699 volte. Termini come “orribile” o “brutale” etc. sono usati in modo sproporzionato nelle descrizioni dei bambini israeliani – una “mancanza di compassione” per i bambini palestinesi che è “forse dovuta al fatto che sono ‘indottrinati’ e ‘radicalizzati’ e quindi obiettivi legittimi dei bombardamenti israeliani.”
Sul Washington Post l’uso discriminatorio delle parole è palese: “… bambini israeliani aggrediti in modo barbaro dai terroristi di Hamas, bambini palestinesi lasciati morire sotto i bombardamenti israeliani”. Nel primo caso, “deliberato, freddo, ideologico”, nel secondo “passivo, sterile, riluttante e potenzialmente anche responsabilità dei palestinesi”, osserva l’esperto.
Da notare che per i bambini di Gaza è stato coniato un nuovo acronimo: Wcnsf (Wounded Child No Surviving Family), ovvero “bambino ferito, senza famiglia sopravvissuta” – oltre mille gli amputati, con dei “seghetti”, senza anestesia, i farmaci bloccati a pochi chilometri da Israele. A oggi, sono stati uccisi 18.000 bambini palestinesi, 50.000 gravemente malnutriti, distrutta la salute psicologica di oltre un milione.
Il termine “massacro” (“slaughter”) non è mai stato usato per i palestinesi. Se appare è un palestinese a dirlo, con la forma del ‘punto di vista’: “… stanno tutti reagendo a quello che i palestinesi chiamano massacro”. Per gli israeliani viene usato centinaia di volte, in modo oggettivizzante: “Sono video molto difficili da vedere, questo è stato un massacro”.
Poco meglio la carta stampata. Le uccisioni di israeliani contro quelle palestinesi sono descritte come un “massacro” (“slaughter”) in un rapporto di 60 a 1; “carneficina” (“massacre”) in un rapporto di 125 a 2; “orribile” (horrific) in un rapporto di 36 a 4. I palestinesi non sono massacrati, ma semplicemente “uccisi” o “morti” – uso frequente della forma passiva – “dalla guerra”. Nel mese analizzato, gli israeliani sono menzionati 95.468 volte, i palestinesi 18.982, nonostante il crescente divario di uccisioni.
Guerra ai giornalisti
Una guerra mortale per i giornalisti, quasi tutti palestinesi, ma “giornalisti” compare in 9 titoli dei 1.100 analizzati e solo in 4 di questi si parla di giornalisti arabi. In tv è il portavoce dell’Idf a prendere quasi tutto lo spazio (19 giorni su 30 studiati), dove “afferma spesso (senza prove e quasi senza opposizione da parte dei giornalisti) che (…) scuole, università, luoghi di culto e abitazioni civili sono obiettivi legittimi.” Molti giornalisti convengono.
Le uccisioni di Hamas sono descritte “come strategie del gruppo”, quelle dei civili palestinesi “quasi alla stregua di errori una tantum”. Ma che questi ‘errori’ si ripetano ogni giorno, segnando una strategia, “i lettori se ne sono accorti e capisco la loro frustrazione”, riferisce un interno del Times (in anonimato, per paura di ritorsioni).
Il “promemoria” del NYT
Il 15 aprile 2024 l’Intercept, dopo aver visionato promemoria interni al Times e chat WhatsApp, svela le direttive interne su come raccontare il conflitto. E’ stata bandita la dicitura internazionale “territori occupati”; il termine “genocidio” è “da evitare” (se non in contesti strettamente legali), così come “pulizia etnica.” Non usare il termine “Palestina”, evitare “campi profughi”, se non in “casi molto rari”. Linee guida che “possono sembrare professionali e logiche se non si ha conoscenza del contesto storico del conflitto”, cioè l’occupazione, “nocciolo di tutto il conflitto”, spiega l’interno del Nyt.
Cancellare il termine “Territori occupati”, dicitura Onu e del diritto umanitario internazionale, e cancellare l’occupazione è praticamente la stessa cosa. Israele è per l’Onu “Occupying Power” (Potenza occupante), status che ha conseguenze anche giuridiche. L’occupante ha precisi doveri di tutela dell’occupato, mai rispettati. Al punto che la Corte Internazionale di Giustizia, Advisory Opinion del 9 luglio 2004, ‘avvertiva’ le agenzie di cooperazione internazionale a non sostituirsi a Israele per non oscurarne le responsabilità – e a non ‘regalargli’, di fatto, risorse.
Silenziare le voci palestinesi
“Come vengono incoraggiati i lettori americani a pensare ai palestinesi?”. Maha Nassar, Università dell’Arizona, ha vagliato 50 anni di articoli di opinione. Il racconto dei palestinesi è fatto “spesso in modi condiscendenti e persino razzisti” e per il 99% da non-palestinesi. New York Times, meno del 2% su 2.500 articoli; Washington Post, l’1%. The New Republic, su 500 articoli non una sola firma palestinese.
“All Eyes On Rafah”?
La libertà di stampa in Israele è gravemente limitata. Il materiale giornalistico ritenuto “sensibile” è visionato dal Censore Militare, che decide, in base a “regolamenti di emergenza” di 70 anni fa, cosa si pubblica, cosa no, cosa va cambiato: nel 2023 sono stati 623 gli articoli censurati, 2.703 le parti oscurate (+972 Magazine). Nella classifica di Reporters Without Borders, Israele è oggi al 101esimo posto, 572 i giornalisti detenuti (stragrande maggioranza arabi) e 18 gli uccisi (sui 150 Onu, RWB conta solo i casi in cui è già dimostrata l’uccisione in relazione all’attività). La sede di Al Jazeera a Tel Aviv è stata chiusa, il materiale sequestrato. Via gli ultimi testimoni da Rafah.
La simpatia oggi è per i palestinesi. Il 70-80% degli statunitensi si informa sui social media, le nuove “forze dominanti del giornalismo”, e anche se l’ordine è di “censura sistematica dei contenuti palestinesi” (Human Rights Watch), il flusso di fotografie traumatiche e video inguardabili non si ferma.
Deumanizzare i palestinesi; “avvicinare” la sofferenza israeliana per dirottare l’empatia verso l’occupante; eliminare il contesto storico – la normalizzazione del genocidio in corso è in gran parte responsabilità dei media. Per non essere complici, utilizzare la terminologia internazionale e le corrette categorie storiche – coloni/nativi – e dar voce ai palestinesi sarebbe un buon inizio, ma solo l’inizio.