C’è una “coda” della interminabile stagione pandemica che merita di essere affrontata e approfondita benché riguardi una questione apparentemente di nicchia, sotto il profilo giuridico. E tuttavia, essa non va passata sotto silenzio; non foss’altro perché riguarda coloro che, all’arrivo del Covid-19, furono celebrati come eroi.

Parliamo dei medici di base che si trovarono ad affrontare la prima ondata del morbo letteralmente a mani nude, in un contesto di penuria dei presidi di protezione e nell’assenza di un piano pandemico adeguatamente aggiornato. Ebbene, non pochi di quei sanitari persero la vita dopo aver contratto il Coronavirus. Molti di essi avevano in essere una polizza assicurativa (per morte da infortunio) che avrebbe potuto, o potrebbe ancora, “ristorare” i beneficiari designati (in genere, i parenti più prossimi) con l’indennizzo contrattualmente pattuito.

Uso il condizionale perché la questione è tutt’altro che pacifica e ha dato vita a un dibattito giuridico, sul piano giurisprudenziale e dottrinale, incentrato proprio sulla possibilità o meno di dar corso alle relative erogazioni. Il nocciolo della questione – in parole povere e al netto degli eccessivi tecnicismi – è così sintetizzabile: la morte da Covid-19 può essere considerata alla stregua di una morte da “infortunio”?

Tradizionalmente, quest’ultimo è definito come “un evento dovuto a causa fortuita, violenta ed esterna, che procura all’assicurato lesioni fisiche obiettivamente accertabili”. Ora, nessun dubbio che il virus di cui trattasi, sul piano causale, abbia due delle caratteristiche succitate: esso è una causa “esterna” (rispetto all’organismo infettato) e fortuita (indipendente, cioè, dalla volontarietà della vittima).

Il grosso problema, invece, riguarda il connotato della “violenza”. Se quest’ultima viene associata, sul piano semantico, solo a un “traumatismo” di carattere meccanico, il Covid-19 sembrerebbe non rispondere anche al terzo dei requisiti “di legge” necessari per liquidare il dovuto. Ed è proprio questo il punto su cui fanno leva, e di cui si fanno forti, le compagnie di assicurazione per non dover sborsare le somme richieste dai beneficiari delle polizze contratte dai medici falcidiati dal Coronavirus. Dopotutto – obbiettano i colossi del ramo – è intuitivo anche per l’uomo della strada che il Covid-19 è una malattia e non un infortunio.

E dovrebbe bastare, per condividere tale asserto, il buon senso comune, senza dover scomodare i luminari della medicina-legale. Caso risolto, dunque, all’insegna dell’immortale battuta attribuita a Sherlock Holmes (elementare Watson)? Non proprio; anzi, nient’affatto. La soluzione più condivisibile è quella opposta. E a dircelo sono proprio i sacri testi della medicina legale e dell’infortunistica del lavoro su cui si basa – e da cui è stato letteralmente “informato” – anche il settore assicurativo privato, a partire da fine ‘800.

Il Consiglio Direttivo della Società Medico Legale Triveneta, con una delibera del 12 giugno 2020, ha precisato che l’infezione virale o batterica va reputata alla stregua di infortunio a tutti gli effetti, dotato delle caratteristiche dell’accidentalità, della violenza e dell’esteriorità casuali. E ciò in virtù del fatto che, nel gergo assicurativo, per “violento” si intende ogni fattore, non necessariamente traumatico, che agisce con rapidità e intensità, in un brevissimo arco temporale (come accade nel caso delle infezioni).

Infatti, le radici teoriche, e definitorie, dei contratti privati contro gli infortuni affondano nel “terreno” concettualmente (e ampiamente) già “dissodato” della tutela assicurativo-sociale del lavoro che vide una sua prima elaborazione legislativa e dottrinaria già a partire dalla fine del XIX sec. In una recente sentenza (n. 164 del 2023), così si è espresso il Tribunale di Parma: “L’affezione è un infortunio (in astratto) indennizzabile”; e ancora: “L’affezione riconducibile ad un singolo, individuo, agente virale, va specificamente inserita in una clausola di esclusione per non dar luogo alla prestazione assicurativa”.

Ad abundatiam, si consideri che il cosiddetto decreto “Cura Italia” (nr. 18 del 17.03.20) relativo alle prestazioni Inail ha qualificato l’infezione in oggetto proprio alla stregua di un infortunio. E a chi obbietta che trattasi di norma con vocazione “solidaristica” (valevole solo per le csiddette tutele pubblicistiche ed estranea alle assicurazioni private) è opportuno ricordare che, come già detto, queste ultime si riallacciano, sul piano delle fondamenta concettuali, proprio alla legislazione lavoristica.

Per concludere, è palese come il tema sia ampiamente (fin troppo) “contagiato” dagli interessi del business assicurativo. Se prevalessero – come logica, coerenza ed equità imporrebbero – le ragioni del “buon diritto”, non vi è dubbio che i familiari dei medici deceduti causa Covid-19 dovrebbero, e dovranno, essere indennizzati.

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