Giustizia & Impunità

Sulla separazione delle carriere il dibattito è solo ideologico: così diventa uno scontro sterile

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Nel contesto delle moderne democrazie costituzionali, la figura del pubblico ministero non suscita dubbi circa la sua esistenza, ma piuttosto pone interrogativi riguardo il possibile impiego politico degli strumenti processuali penali. Questa critica è figlia di un’eccessiva ipertrofia legislativa, che mina la riserva di legge in ambito penale e propende per un suo utilizzo come strumento simbolico, piuttosto che come ultima ratio di protezione. Tale fenomeno espande in modo preoccupante la discrezionalità del Giudice e ancor più quella del pm, il quale viene talvolta percepito come un “decisore politico”.

In tal senso, si osserva come il potere giudiziario tenda ad assumere un ruolo antagonista tanto nei sistemi anglosassoni quanto in quelli come il nostro. Tuttavia, se negli Stati Uniti tale tendenza si manifesta nell’ambito costituzionale e civile, in Italia si estende al diritto penale, tradizionalmente distaccato dalle conquiste sociali. Un elemento distintivo, nel confronto con altri ordinamenti democratici, è però la reazione significativa, da parte delle altre istituzioni, alla magistratura che è contrastata da tentativi di delegittimazione attraverso i media, dove si assiste a esempi di fallacie logiche. Dalla fallacia dell’equivalenza, per cui le riforme sulla giustizia ne peggiorano l’efficienza senza una correlazione causale diretta, alla fallacia dell’autorità – citando Giovanni Falcone – senza argomentazioni valide, alla fallacia della generalizzazione affrettata, equiparando il pm a una figura quasi deificata, senza considerare la varietà di responsabilità che ha nella giustizia penale; fino alla fallacia dell’ignoranza deliberata, dove si parla di giustizia indipendente ed efficace ma si propone una struttura che potrebbe compromettere l’indipendenza della magistratura.

Questo scenario rafforza un’immagine di conflitto marcato all’interno del sistema istituzionale e una visione manichea del rapporto tra politica e giustizia, delegittimandole entrambe. Tale contrasto, naturale in ogni sistema basato sulla separazione dei poteri, in Italia assume toni ideologici che ostacolano la legittimazione reciproca e inducono gli operatori a schierarsi, sostituendo un’utile dialettica istituzionale con uno scontro sterile. A questa debolezza politica, caratterizzata da una crisi di identità e da un distacco dalla società, si contrappone una magistratura percepita come corporativa e incline a giustizialismi, talvolta vista come promotrice di una giustizia penalmente militante, intesa come strumento di “rigenerazione etico-politica”.

Questa prassi, vista dai suoi detrattori come un tentativo di rispondere alle aspettative di una collettività indefinita, rischia di subordinare le garanzie dei cittadini a un’impostazione che confonde il diritto con la morale, e viene spesso percepita come un tentativo di sovvertire l’ordine sociale. In questa situazione, il pm è visto come un attore che può, se mal guidato, trasformare il processo penale in uno strumento di guadagno di prestigio e potere, piuttosto che di giustizia. Questi elementi patologici, secondo i critici, contraddicono l’idea di un sistema giuridico basato sul garantismo e violano il principio di legalità, producendo una situazione di illegittimità sistemica. È per tali motivi che, quando si parla del pubblico ministero come funzione di garanzia dei diritti dei cittadini, come nel mio caso, taluni reagiscono associandolo ad una visione “deificata” che può sembrare eccessiva e potenzialmente pericolosa, in quanto potrebbe portare a un accumulo di potere che sfugge al controllo democratico. Questo timore si intensifica pensando che alcuni pm, sfruttando la loro posizione centrale nel sistema giudiziario, possano apparire come arbitri supremi della giustizia.

Invece, è essenziale ammettere che il pm, anche nel suo ruolo ideale, non è né un salvatore né un sovrano, ma un funzionario pubblico il cui compito principale è di agire entro i limiti della legge, garantendo l’imparzialità e la correttezza del processo giudiziario. D’altra parte, accettare senza critica le posizioni dei detrattori porta alla conseguenza della continua erosione delle sue funzioni, come dimostrano le recenti riforme nel sistema giudiziario italiano, inclusa la riforma Cartabia che, pur mirando a un’efficienza maggiore e a una riduzione della congestione dei tribunali, ha ridimensionato il ruolo del pm, concentrando in una sola fase carriere precedentemente più segmentate.

Tale centralizzazione, acuita dal disegno di legge costituzionale recentemente approvato, limita la diversità di esperienze e prospettive all’interno della magistratura, potenzialmente riducendo l’efficacia del sistema giudiziario nel suo complesso. E tuttavia, non è questo il punto, bensì è la “signoria delle informazioni” il vero convitato di pietra delle riforme. L’accesso e il controllo delle informazioni sono fondamentali in ogni processo legale, e la concentrazione di tale potere nelle mani di un singolo ente o figura solleva preoccupazioni e spaventa. Questo è il motivo per cui alcuni poteri forti esprimono resistenza di fronte a ciò che potrebbe ulteriormente consolidare questo potere a loro scapito.

Come ho sostenuto precedentemente, le proposte di riforma come la separazione delle carriere, con l’obiettivo di creare barriere e impedire conflitti di interesse, in realtà minano l’imparzialità del sistema giudiziario dove il pm diventa un “giudice e parte”. Al contrario, andrebbe affrontata l’urgente necessità di ripensare il suo ruolo riconfigurandolo come un’istituzione di garanzia fondamentale per la tutela dei diritti, che non è idealizzazione bensì comprensione approfondita delle diverse funzioni e modelli organizzativi. Formulare un concetto di pm efficace, imparziale e adeguato alle sfide delle democrazie costituzionali contemporanee è essenziale per preservarne il ruolo di difensore degli interessi della società e promotore di una giustizia equa e trasparente a partire dalla sua degerarchizzazione. Solo così si può assicurare che la funzione rimanga quella di un custode dei principi democratici e non quella di un potere incontrastato, che proprio nella separazione delle carriere potrebbe trovare spazio.

Bisogna evitare di cadere in una delle più comuni fallacie ideologiche, quella etico-legalista, che confonde la giustizia delle norme con la loro validità, impedendo di riconoscere l’esistenza di norme ingiuste pur se valide. Il risultato di questa operazione razionale dovrebbe essere la formulazione di un archetipo minimo essenziale perché si parli di Stato democratico, oltre il quale si avrà sempre, perché no, ma solo successivamente, la sovrana libertà di concepire e organizzare a proprio modo tale funzione. Cosa vorrà mai dire, però, “difensore dei diritti dei cittadini” proverò a dirlo al prossimo contributo.

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