Economia

Tesla tra le 35 big che non versano tasse ma strapagano i manager. Il Senato Usa studia lo stop ai vantaggi fiscali per grandi aziende e super ricchi

Quasi una provocazione. Il via libera degli azionisti Tesla sul maxi pacchetto retributivo per Elon Musk è arrivato poche ore dopo che il Senato Usa ha audìto tra gli altri il premio Nobel Joseph Stiglitz per chiedergli suggerimenti su come rendere il sistema fiscale Usa più equo e far sì che Wall Street e i molto ricchi paghino “la loro giusta quota“. Uno studio dell’Institute for Policy Studies, chiamato a sua volta a testimoniare con Sarah Anderson, ha evidenziato che il gruppo delle auto elettriche è un ottimo esempio di come i big riescano a eludere il fisco grazie a scappatoie del tutto legali: Tesla non ha mai pagato un centesimo in tasse federali sul reddito nonostante sia in utile dal 2020 (nel 2022 i profitti sono saliti a 12,6 miliardi). In compenso, appunto, è pronta a offrire decine di miliardi in denaro e stock option al magnate – che si alterna a Bernard Arnault alla guida della classifica degli uomini più ricchi del mondo – pur di “incentivarlo” a mantenere le redini. Dopo le presidenziali, il Congresso dovrà decidere se confermare le norme che rendono il sistema così iniquo o cercare un accordo su una riforma radicale.

Ai manager più soldi che al fisco – Tesla è tutt’altro che un caso isolato: tra il 2018 e il 2022, dopo i tagli fiscali concessi da Donald Trump, sono state 35 le grandi aziende Usa che pur facendo profitti hanno pagato ogni anno meno tasse federali che compensi ai loro primi cinque dirigenti apicali. Per la precisione le loro imposte nel complesso sono risultate negative per 1,8 miliardi – hanno cioè ricevuto rimborsi, frutto di passate perdite o di accorgimenti fiscali che abbattono il reddito tassabile in patria – mentre i top manager ne hanno incassati 9,5. La lista comprende Ford, Netflix e T-Mobile oltre appunto a Tesla. Altri 29 gruppi hanno fatto lo stesso per almeno due anni su cinque. In totale le 64 aziende analizzate hanno registrato utili per 657 miliardi di dollari e versato oltre 15 miliardi ai manager, mentre al fisco hanno versato il corrispondente del 2,8% dei profitti nonostante l’aliquota legale sulle società sia del 21%. Un altro studio pubblicato a maggio dall‘Institute on Taxation and Economic Policy trova che tra 2018 e 2021 l’aliquota effettiva versata da Citigroup e Bank of America si è fermata al 4%.

Nel 2025 scadono gli sconti di Trump – La commissione Finanze del Senato, guidata dal democratico Sheldon Whitehouse, ha avviato un ciclo di audizioni proprio in vista del fatto che a fine 2025 una serie di benefici fiscali trumpiani sono destinati a scadere. Si va dalla riduzione della corporate tax dal 35 al 21% al taglio dal 39,6 al 37% dell’aliquota più alta della tassa federale sul reddito per chi guadagna oltre 400mila dollari l’anno. “Regali” che i Repubblicani puntano a prorogare al prezzo di un aumento del deficit di 4.600 miliardi di dollari. I Democratici sono contrari e vogliono invece “aggiustare il nostro corrotto e marcio sistema fiscale“, ha spiegato Whitehouse, “in modo che le grandi corporation e i ricchi paghino la loro giusta quota”.

Oggi le grandi società quotate utilizzano a man bassa pratiche come il riacquisto di azioni proprie (buyback) – che fa automaticamente salire il valore dei titoli – per aumentare i guadagni di azionisti e amministratori delegati: lo scorso anno hanno destinato allo scopo 950 miliardi di dollari. Intanto le tasse sulle corporation, da cui derivava un quinto del gettito fiscale Usa, sono crollate al 6% del totale. “Molte grandi aziende pagano zero”, ha sintetizzato il senatore progressista. “I miliardari pagano aliquote più basse di infermieri e idraulici“. Il dato emerge chiaramente dagli studi condotti negli ultimi anni dall’economista Gabriel Zucman, teorico di una global minimum tax sui 3mila miliardari mondiali, ma non è certo una novità: è passato più di un decennio da quando Warren Buffett ha chiesto un aumento delle tasse sui super ricchi denunciando di pagare meno tasse della propria segretaria.

Le proposte dei Democratici – Finora l’amministrazione Biden non ha avuto la forza di far passare al Congresso misure di totale rottura rispetto all’eredità trumpiana. Ma a marzo, durante il discorso sullo Stato dell’Unione, il presidente ha proposto un pacchetto fiscale che prevede la demolizione delle misure varate dal suo sfidante alle presidenziali di novembre. Dentro ci sono una tassa minima del 25% sui redditi di chi possiede patrimoni sopra i 100 milioni di dollari, il ritorno della corporate tax al 28%, un aumento della tassa sui buyback introdotta con l’Inflation reduction act, la fine dei vantaggi fiscali sui compensi milionari dei manager, un incremento dal 15 al 21% della tassa minima sulle multinazionali oggetto dell’accordo globale che gli Usa non hanno ancora recepito causa opposizione dei Repubblicani.

L’ala progressista dei Democratici, capeggiata da Bernie Sanders e Elizabeth Warren, vorrebbe anche penalità fiscali per i gruppi che pagano i top manager oltre 50 volte lo stipendio medio di un dipendente. Vedi Tesla ma anche, ovviamente, tutte le grandi banche. Il rapporto tra compenso dell’ad e quello del lavoratore mediano è di 366 per Jp Morgan Chase, 360 per Citigroup, 325 per Wells Fargo, 230 per Bank of America. Stando a un sondaggio condotto negli Usa il mese scorso, una norma del genere avrebbe apprezzamento trasversale: l’80% degli elettori è a favore (71% tra i Repubblicani, 89% tra i Democratici). Potrebbe derivarne un gettito di 150 miliardi in 10 anni.

Le audizioni al Senato – In cerca di suggerimenti concreti, la commissione Finanze del Senato ha convocato tra gli altri Stiglitz e Sarah Anderson, direttrice del Global Economy Project dell’Institute for Policy Studies. Il Nobel per l’Economia ha ricordato che le fasce più benestanti pagano meno tasse sul reddito delle altre, in proporzione, anche grazie alle basse aliquote sulle plusvalenze azionarie (20% al massimo) e al fatto che sono tassate solo nel momento in cui vengono realizzate: di qui la richiesta di intervenire su entrambi i fronti, in linea con intenzioni già espresse da Biden. Stiglitz ha poi caldeggiato ancora una volta una tassa minima sui molto ricchi come quella in discussione al G20 presieduto dal Brasile, un aumento della corporate tax, l’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie, nuovi standard di trasparenza sulle stock option e l’eliminazione di ogni trattamento di favore sui introiti degli individui ad alto reddito.

Anderson si è limitata a ricordare le proposte legislative già depositate per rimediare ai guasti del sistema: dall’Excessive CEO Pay Act alla tassa sulle speculazioni di Wall Street per scoraggiare le transazioni puramente speculative fino all’aumento della tassa sugli acquisti di azioni proprie. L’importante, ha detto, è che la riforma del fisco sia radicale: a fine maggio il suo istituto insieme un centinaio di organizzazioni della società civile ha fatto appello al Congresso perché si accordi su un nuovo codice che combatta le “dannose concentrazioni di potere economico” e inverta la rotta rispetto a decenni di riduzioni fiscali per categorie privilegiate che hanno minato l’equità del sistema e fatto crollare il gettito.