Uno, nessuno e 268mila. Tanti, mi assicurano, sono stati quest’anno gli spettatori internazionali del Primavera Sound di Barcellona, appena consegnato agli archivi e alla storia. Generazione Z e millenials per lo più, ma anche un mucchio di tardoni che erano tecnicamente giovani negli anni Novanta/prima metà anni Zero (come chi vi scrive) e finanche cospicue truppe irriducibili della Generazione X (e precedenti). Parliamo della 22esima edizione (la mia terza consecutiva) di quello che rappresenta, di fatto, il Coachella europeo, con maggiore varietà e profondità di offerta.

Un’edizione che era nata sotto una cattiva stella: la morte improvvisa di Steve Albini, demiurgo delle produzioni indie e leader di quegli Shellac che si sarebbero dovuti esibire al Primavera per l’ennesima volta. Il festival gli ha reso omaggio intitolandogli uno stage e con una festa di ascolto collettivo del loro recentissimo album. Un mazzo di fiori e gli strumenti preparati come se qualcuno avesse dovuto suonarli davvero. E quando, dopo parecchi anni, sul Parc del Forum si è abbattuta la pioggia per ore e ore, raffreddando ed elettrizzando l’aria, trasformando i live in un rito catartico degno di Woodstock… forse Steve ha voluto lasciarci un ultimo saluto dei suoi. I concerti. Come sempre, certe scelte sono state “lancinanti” per via delle consuete sovrapposizioni e degli inevitabili appostamenti tattici. E visto che per passare da un palco all’altro (otto quelli di grandi dimensioni, più altri di complemento), con distanze da maratoneti, l’unica sarebbe stata salire a bordo di un drone gigante… ho dovuto rinunciare per esempio (mea culpa) a Lambchop, Julie Byrne, i Duster, i Mount Kimbie, Arca, Sza, Chelsea Wolfe, le Bikini Kill, The Last Dinner Party, Romy, i Deftones. Quanto incommensurabile spreco.

Sono riuscito a vedere però: Beth Gibbons (che ha ricantato anche qualche classico dei suoi Portishead, come Roads. Nonostante attimi d’inquinamento sonoro, voto 10), i Phoenix (il frontman che ha fatto uno stage diving soft, come in piano sequenza. Voto 7+), i connazionali Justice (mi hanno risvegliato in piena notte, voto 8), i Blonde Redhead (li amo alla follia, e se nelle occasioni precedenti la resa dal vivo mi era parsa deficitaria rispetto al disco, stavolta una performance perfetta. Voto 8 e mezzo), Arab Strap e Yo La Tengo (sempre a proposito “W l’alternative 90/inizio 2000”. Voto 8 per i primi, 7 per i secondi, un po’ soporiferi), Lana Del Rey (era l’appuntamento più atteso quello con la regina del sadcore, ormai diva pop tout-court. Uno show con coriste, corpo di ballo e scenografia in pompa magna. Ma continua a non prendermi più di tanto, a parte una mezza dozzina di pezzi. Muro umano e karaoke di massa, voto 6 e mezzo), Badbadnotgood (straordinari, jazz-rock dal futuro, voto 8+), gli australiani Royel Otis (pop frizzante ancorato al miglior passato, voto 7 e mezzo), i Pulp (la loro reunion non ha tradito le attese e poi a un certo punto Jarvis Cocker sdraiato su una poltrona, bicchiere in mano, posa gainsbourgiana… Voto 8), metà Vampire Weekend (la loro forza è un’originalità invincibile: voto 7 e mezzo), una tranche di Lemon Twigs, Tirzah, Amyl and the sniffers (incendiaria, lei) e 070 Shake. E sotto la predetta pioggia battente ho gioito come un adolescente per il meraviglioso set (integrale) della magnetica Pj Harvey, che ha sfoderato (finalmente) un sacco di classici (voto 9 e mezzo) e a seguire per quello di Mitski (una forza della natura scenica, oltre che in streaming. Voto 8).

Considerazione finale. Il Primavera Sound è sempre più “New Normal”, la line-up è equamente e spontaneamente distribuita tra sessi e generi, nel pubblico di tutte le età si respira solo libertà, civiltà e fratellanza. E tornare a casa, alla realtà là fuori, diventa ogni anno più difficile.

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