di Silvia Panini*

Quando si parla di autodeterminazione dei corpi e, in particolare, di diritto all’interruzione volontaria di gravidanza, ci si scontra spesso con posizioni ideologiche che rimandano alla religione o ad un’idea di società arcaica. Questa è una tematica che permea ogni livello, da quello più politico di posizionamento sul piano internazionale a quello locale amministrativo, più vicino alle persone.

La prima giornata del G7 – il summit dei primi ministri e capi di governo di Canada, Francia, Italia, Giappone, Stati Uniti e Regno Unito – che si tiene in questi giorni in Puglia, si è aperta con lo stralcio del riferimento al diritto all’ “accesso all’aborto sicuro e legale e alle cure post-aborto”. Un riferimento voluto principalmente da Canada e Francia – quest’ultima ha di recente inserito questo diritto nella propria Costituzione -, ma che nella bozza in apertura del summit è misteriosamente sparito.

La traduzione nella vita concreta delle persone di questo passo indietro sui diritti è visibile: qualche settimana fa ha aperto a Torino la prima stanza delle associazioni “Pro-vita e famiglia” all’ospedale Sant’Anna, mentre in seguito ai risultati delle elezioni amministrative a Modena entra in consiglio comunale Andrea Mazzi, vice-responsabile della comunicazione della campagna “40 giorni per la vita” (40 days for life), la campagna internazionale che “mira a porre fine all’aborto attraverso una veglia di 40 giorni agli ospedali e alle cliniche in cui si pratica l’aborto”, secondo i comunicati stampa ufficiali degli organizzatori. Nonostante non sia in maggioranza, i numeri ottenuti dalla lista in cui era candidato gli permetteranno quantomeno di portare il tema in agenda, se non addirittura di proporre iniziative volte, come lui dice, a non permettere che l’ambiente induca le donne a rinunciare alla gravidanza.

Questi sono i primi atti concreti in seguito alla notizia di qualche settimana fa dello stanziamento di fondi del Pnrr a sostegno della presenza di associazioni cosiddette in supporto alla maternità all’interno dei consultori pubblici. Questa misura si inserisce in uno storico di politiche nulle – non solo di questo governo – per garantire il funzionamento delle strutture sanitarie preposte alla salute riproduttiva, che dalla loro istituzione ad oggi non sono mai state in numero adeguato a coprire il bacino di utenza e anzi sono diminuite nel tempo.

L’ingresso facilitato alle associazioni antiabortiste nei consultori e negli spazi preposti per legge alla salute riproduttiva e alla cura si inserisce anche nelle maglie larghissime di una legge – la 194 del 1978 – che già dal suo titolo, “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”, sottolinea come il ruolo femminile sia inteso innanzitutto come riproduttivo, senza chiedere consenso, senza chiedere alla persona dotata di utero cosa vuole fare del proprio corpo, ma prevedendo per lei un ruolo che nella società patriarcale è quello della madre.

Per quanto riguarda il numero delle strutture e il personale medico a disposizione, la situazione a livello nazionale è tragica, e già da parecchi anni. Secondo l’ultima relazione disponibile del Ministero della Salute, in Italia è obiettore di coscienza il 64,6% del personale medico ginecologico. Nonostante la legge preveda che ogni struttura ospedaliera deve garantire l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza, i numeri di obiettori di coscienza spesso non lo permettono. Se da una parte si deve garantire il rispetto della legge, quindi garantire la presenza di personale non obiettore in ogni struttura, dall’altra si deve garantire all’interno delle scuole di medicina la formazione adeguata a garantire il servizio. Le pressioni antiabortiste interne al sistema medico-sanitario, infatti, creano muri attorno a chi sceglie di praticare l’IVG e spesso limitano l’accesso all’informazione già dagli studi.

A questo si unisce la mancanza di percorsi obbligatori di educazione sessuale all’interno delle scuole pubbliche, che si traduce in persone che non hanno accesso agli strumenti per vivere e praticare con consapevolezza la propria sessualità. Alcune regioni – l’Emilia-Romagna è una di queste – prevedono percorsi territoriali, ma non possono prevederne l’obbligatorietà nei programmi scolastici, che sono competenza del ministero dell’Istruzione. La questione non riguarda quindi solo i diritti riproduttivi, ma anche e soprattutto la giustizia sociale: perché solo le scuole con gli spazi, le risorse umane e materiali per attrezzare una sala per la lezione o ritagliare un momento nel programma annuale, e solo le scuole con una cultura interna aperta e progressista coglieranno l’opportunità offerta dalla Regione, mentre rimarranno indietro quegli istituti storicamente tralasciati dall’innovazione scolastica, vuoi per posizione geografica non privilegiata, vuoi per status socio economico, vuoi per coincidenza di insegnanti e classi.

Non è roseo lo scenario neppure per chi, per vie private e privilegiate, può accedere alle informazioni sui percorsi di pianificazione familiare e l’uso di contraccettivi: un esempio rappresentativo è la pillola anticoncezionale. In alcune regioni d’Italia, questa si può richiedere gratuitamente attraverso il consultorio locale, ma solo fino ad una certa età (in Emilia-Romagna ad esempio il limite è 26 anni). Per la maggior parte della popolazione, invece, una confezione costa tra i 15 e i 20€, per una spesa annua di più di 200€: non certo pochi spiccioli.

All’inizio del 2023 l’AIFA, solo due mesi prima della riforma dell’ente voluta dal governo, aveva avanzato la proposta di renderla gratuita a tutta l’utenza, per un investimento totale di circa 140 milioni di euro. Un sostegno concreto, un vero atto sovversivo che avrebbe reso la contraccezione sicura un diritto e non un privilegio applicabile in base al reddito, armonizzando la situazione italiana con quella europea dove già sono previsti prezzi fortemente calmierati ed esenzioni totali per le persone più giovani. La manovra ovviamente è stata definitivamente bocciata una volta insediato il nuovo cda.

Un ultimo, potenzialmente grande, strumento è quello dell’aborto farmacologico per mezzo della pillola RU486, la “pillola abortiva”. Il potenziale sta nel fatto che, purtroppo, la disponibilità della pillola risiede nel sistema sanitario regionale e il governo attuale propone l’Autonomia differenziata come visione per il nostro Paese. Ma le disuguaglianze territoriali già oggi presenti, in questo modo, non farebbero che acuirsi e rappresenterebbero un ulteriore peso sulle spalle di quelle persone che vivono in regioni ad alto tasso di obiettori di coscienza e con complesse situazioni socio-economiche, a causa di decenni di politiche deliberatamente antimeridionaliste.

Ecco che allora la questione dei diritti riproduttivi diventa inesorabilmente una questione di equità sociale. Perché rendere difficile l’aborto legale e sicuro, non ne diminuisce l’utilizzo in termini assoluti: ne aumenta solo l’utilizzo per vie illegali e soprattutto lo rende accessibile solo a chi può spostarsi in altre regioni, a chi può accedere all’ivg (illegale) in cliniche private e a chi ha le risorse necessarie, in caso, di farsi assistere anche nelle complicazioni che un aborto illegale può provocare.

Garantire, dunque, un accesso sicuro e garantito a questa pratica medica è innanzitutto un principio di non discriminazione su base socio-economica della popolazione dotata di utero. La questione non è solo ideologica e politica, ma concreta anche e soprattutto sul livello locale e amministrativo.

*portavoce per Volt Emilia-Romagna

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