Il cancelliere tedesco Olaf Scholz lo ha definito un risultato storico. Janet Yellen, segretaria al tesoro Usa, e Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Ue, lo presentano come una prova della determinazione del G7 a sostenere Kiev. Tuttavia, a leggere e a guardar bene come è strutturato il fondo da 50 miliardi di dollari predisposto per sostenere l’Ucraina sembra vero esattamente il contrario. È una bandiera bianca alzata a metà. Cerchiamo di capire perché. Il valore cumulato delle economie dei paesi del G7 (Stati Uniti, Canada, Giappone, Gran Bretagna, Francia, Germania ed Italia) è di 44mila miliardi di dollari. Ma, insieme, riescono ad accordarsi per un finanziamento a quella che definiscono la frontiera in cui si combatte per la libertà di tutto l’Occidente con un novecentesimo della ricchezza che generano in un anno. Per adesso, per di più, i soldi li metteranno solo Usa, Canada, Gran Bretagna e Giappone.

Voglia di spendere altri soldi sembra essercene poca. E per fare finta che non saremo noi a pagare, viene messo in piedi il barocco meccanismo del rimborso attraverso gli interessi maturati sui 280 miliardi di asset russi, sparsi tra Stati Uniti e, soprattutto, Unione europea. In teoria i paesi che erogheranno il prestito, con quote in proporzione alla loro dimensione economica, dovrebbero così incassare tra i 3 e i 5 miliardi di dollari all’anno. In una decina di anni o poco più, il prestito potrebbe essere ripagato. Ma è tutto molto ipotetico. Nel momento in cui si arrivasse a trattative di pace con Mosca, cosa ne sarebbe di questi interessi? Non si è voluta invece seguire, anche per gli indubbi rischi che avrebbe comportato, la linea molto più dura auspicata nei mesi scorsi da Washington: il sequestro diretto dei 280 miliardi russi da cui maturano gli interessi.

In concreto, peraltro, il sistema diventa più che altro una tassa a carico di Euroclear, il depositario centrale che custodisce i soldi russi in Europa e che dovrebbe trattenere gli interessi per conto del suo “cliente”. Se in futuro ci saranno contenziosi legali sulla legittimità di questa operazione la società belga è tra i soggetti più esposti. L’unico vantaggio per i creditori è che se questi soldi verranno usati anche per la ricostruzione tornerebbero in gran parte nelle casse delle imprese occidentali incaricate dei lavori.

I 50 miliardi per Kiev hanno il sapore di un ultimo lascito di una compagine di governanti che non sa dove sarà da qui a fine anno, a causa delle incerte prospettive elettorali dei più. Con Trump forse di nuovo alla Casa Bianca ed equilibri diversi in Germania e Francia è difficile che il già non granitico sostegno a Kiev non subisca qualche incrinatura. Il promesso rafforzamento delle sanzioni cosiddette secondarie, poiché non colpiscono direttamente il paese obiettivo (la Russia) ma quelli che fanno affari con lui, promesso dal G7 neppure sembra essere risolutivo viste le reti alternative di commerci e transazioni da tempo messe in piedi dagli stati coinvolti.

Secondo le stime, la somma stanziata basta a dare ossigeno all’Ucraina al massimo per un paio d’anni. Ma a che scopo?, viene da chiedersi. I soldi che arrivano dall’Occidente non sono certo sufficienti per invertire l’inerzia del conflitto che negli ultimi tempi è favorevole a Mosca. Così come il sostegno militare Nato, nei termini attuali, può fare poco più che guadagnare all’Ucraina un po’ di tempo. Se queste cose non cambiano, e i paesi del G7 mostrano di non volere e/o non essere in grado di cambiarle, non si otterrà nulla di più che rimandare di qualche mese (e di qualche migliaia di morti) la resa dei conti con Mosca per trovare un accordo.

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