“Mr Leopold Bloom mangiava di gusto le interiora di animali in genere e di volatili in particolare. Gli piaceva mangiare dense minestre di rigaglie, gozzi ripieni dal sapore pastoso, cuore farcito arrosto, fette di fegato impanate e fritte, uova di merluzzo fritte. Soprattutto andava matto per i rognoni di castrato alla griglia, che gli lasciavano sul palato un fine sapore di urina lievemente aromatica”.

Leopold Bloom, l’agente pubblicitario “di stirpe ebraica” protagonista dell’Ulysses di James Joyce (Dublino 1882-Zurigo 1941), entra in scena così, nella cucina della sua casa di Dublino, la mattina del 16 giugno 1904, mentre prepara la colazione per sé e per la moglie Molly. Siamo all’inizio del secondo capitolo del romanzo, da sempre considerato il capolavoro del modernismo inglese: in tutto 18 capitoli, ciascuno recante il nome di un personaggio dell’Odissea e ciascuno scritto con una tecnica diversa – dalla narrativa rosa alla sceneggiatura teatrale allo stream of consciousness, il flusso di coscienza –, a catturare nel profondo i singoli momenti della giornata di Mr Bloom, novello Ulisse che il narratore segue per 24 ore, fino alla colazione del giorno successivo, nel suo peregrinare in giro per la città.

L’anno della pubblicazione del romanzo, il 1922, è l’“annus mirabilis” del modernismo: insieme all’Ulysses – uscito a Parigi per iniziativa di Sylvia Beach, fondatrice della leggendaria libreria Shakespeare and Company, dopo che la pubblicazione su rivista era stata sospesa negli Usa e nel Regno Unito per le accuse di oscenità –, escono il poemetto The Waste Land di T.S. Eliot e il romanzo Jacob’s Room di Virginia Woolf, che sulle prime dette a sua volta un giudizio negativo sull’Ulysses, definendolo un libro “dispersivo, oscuro e pretenzioso” di cui non valeva la pena sforzarsi di capire il significato.

Vietato fino al 1933 negli Stati Uniti e ancora fino al 1936 in Francia, l’Ulysses arriva in Italia negli anni Sessanta, pubblicato da Mondadori nella collana diretta da Elio Vittorini, nella traduzione – presentata come l’”unica traduzione integrale autorizzata” – curata da Giulio de Angelis. Da allora, non solo il romanzo è stato di nuovo tradotto più volte – nel 2013 dallo scrittore Gianni Celati, per Einaudi, e più di recente da Alessandro Ceni per Feltrinelli (2021); non solo è stato oggetto di riduzioni teatrali – celebre Molly cara, adattamento dello straordinario monologo finale di Molly Bloom pensato da Tino Schirinzi e Giuseppe Di Leva per l’attrice Piera Degli Esposti nel 1979; non solo ha ispirato film e canzoni – Flower of the Mountain della cantautrice britannica Kate Bush, incisa nel 1989 e di nuovo nel 2011, è a sua volta una rielaborazione del flusso di coscienza di Molly; ma addirittura è stato capace di trasformarsi in una festa nazionale, irlandese e non solo.

A Dublino e in molte altre città europee – compresa Trieste, dove Joyce vive a lungo, stringendo amicizia con Italo Svevo, e dove scrive i primi capitoli dell’Ulysses – il 16 giugno si celebra il Bloomsday, la festa dedicata al protagonista del romanzo e al suo creatore: una giornata in cui migliaia di uomini e donne qualunque – l’Everyman impersonato da Mr Bloom – si riversano per le strade, spesso in abiti primonovecenteschi, per intraprendere una lettura corale del romanzo, e in cui in molti “vanno in pellegrinaggio” a Dublino, dove ripercorrono il periplo di Leopold attraverso la città, dalla chiesa alla banca al pub, e possono fermarsi a gustare una colazione “alla Bloom” con salsicce, pudding e pancetta.

Ma cos’è che ancora oggi, a distanza di più di un secolo, continua ad attirare lettori e fan di ogni lingua ed età? Senza dubbio la trama, intessuta da tre personaggi – oltre a Leopold e Molly Bloom, l’alter ego dell’autore, Stephen Dedalus, già protagonista del romanzo giovanile A Portrait of the Artist as a Young Man (1916) – di cui si racconta una giornata-tipo, con le occupazioni e i pensieri che possono essere quelli di tutti noi: Stephen è in lutto per la morte della madre, Leopold sa che la moglie ha intenzione di tradirlo ed è spinto a fare altrettanto.

Come pure la scrittura, ipnotica e incantatrice, gioiosa e difficilissima – quella di “uno che aveva imparato a trasmettere sulla pagina ciò che i musicisti chiamano orecchio interno, al di là del senso oggettivo delle parole” (Celati): chi abbia la buona dose di pazienza necessaria ad addentrarsi nella lingua e nello stile dell’Ulysses sarà ricompensato con un’incredibile enciclopedia di riferimenti e allusioni, dalla filosofia medievale alla simbologia dei tatuaggi, dall’epica classica alla topografia dublinese, dall’opera lirica alle battute oscene, dalle filastrocche per bambini ai proverbi irlandesi.

La lettura dell’Ulysses è un’avventura per qualsiasi lettore, e se il romanzo risulta ora divertente, ora impenetrabile, ora enigmatico, ora tutte e tre le cose insieme, è perché così è fatta la vita: a fronte delle non poche critiche piovutegli addosso all’uscita del suo capolavoro, Joyce ebbe a rispondere proprio così: “if Ulysses isn’t worth reading, then life isn’t worth living” – se non vale la pena leggere l’Ulisse, allora tanto vale non vivere nemmeno.

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