Si ostenta unità sul fronte occidentale. Nemmeno il tempo di concludere il summit del G7 a Borgo Egnazia che i leader e le delegazioni dei Paesi si sono diretti in Svizzera per il vertice di pace sull’Ucraina. Tutti uniti, come sempre, nel sostenere la proposta di pace del presidente Volodymyr Zelensky: “Accogliamo con favore il vertice sulla pace in Ucraina previsto in Svizzera il 15 e 16 giugno – hanno precisato nel documento finale del G7 – Continueremo a lavorare per ottenere il più ampio sostegno internazionale possibile ai principi e agli obiettivi chiave della Formula di Pace del presidente Zelensky”. Anche Giorgia Meloni, nella conferenza stampa finale, ha ribadito che i Paesi rimarranno al fianco di Zelensky “fino a quando ce ne sarà bisogno”. Dichiarazioni che, però, si scontrano con la realtà. Così, tra Stati stanchi di stanziare centinaia di milioni di euro per sostenere Kiev, armi che scarseggiano e governi che non sanno quanto ancora resteranno in carica, tra gli alleati non sembra esserci quell’unità ostentata nelle dichiarazioni e negli appuntamenti ufficiali.
Crosetto contro Stoltenberg
Il primo segnale di un disallineamento più marcato rispetto al passato ha visto protagonista proprio l’Italia. Mentre Meloni faceva la padrona di casa in Puglia con i capi di Stato e di governo dei 7 Grandi, il botta e risposta si è consumato a distanza tra il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, e il ministro della Difesa, Guido Crosetto. Il norvegese, che lascerà l’incarico a ottobre, è tornato nei giorni scorsi a lamentare la mancanza di un programma di stanziamenti a lungo termine da parte dei Paesi dell’Alleanza in favore dell’Ucraina. Una mancanza che, aveva già spiegato in passato, compromette le operazioni militari ed espone il fronte occidentale al rischio di impasse. Così, nei giorni scorsi aveva proposto un piano di stanziamenti annuali da 40 miliardi.
Ma l’idea non è piaciuta al governo di Roma e, mentre la presidente del Consiglio era impegnata nei vertici pugliesi, è toccato a Crosetto lanciare un messaggio chiaro e deciso ai leader dell’Alleanza: “Il pacchetto da 40 miliardi all’anno per l’Ucraina è un discorso posticipato. I 40 miliardi non ci sono, l’Italia ha detto che non è d’accordo a un impegno di questo tipo, che avrebbe significato per noi 3,5 miliardi all’anno aggiuntivi, dato che già facciamo difficoltà ad arrivare al 2%” di spesa militare annua.
I dubbi tedeschi
Quello sollevato dall’Italia sarebbe un problema forse risolvibile con il dialogo, degli accordi economici, una rimodulazione delle quote. Se solo fosse l’unico. Perché il fronte occidentale è tutt’altro che compatto. E a mostrare i primi segni di cedimento è anche la Germania, con un’economia in difficoltà e una crisi politica esplosa dopo il voto europeo, con i partiti di governo, Spd e Verdi, crollati nei consensi in favore della Cdu e, soprattutto, dell’estrema destra di Alternative für Deutschland. A settembre si vota nei Länder dell’est, dove la formazione ultranazionalista ha le sue più importanti roccaforti, e tra un anno circa il Paese tornerà alle urne per le Politiche. In questo contesto, l’unica speranza del cancelliere Olaf Scholz è quella di recuperare più consensi possibili a partire dalle decisioni sul bilancio in discussione da luglio.
Per questo, scrive Politico, il rappresentante permanente di Berlino in Unione europea, nel corso del vertice con i suoi omologhi per discutere un nuovo pacchetto di sanzioni alla Russia, si è opposto. In particolare, si è detto contrario a una nuova clausola che impedirebbe ai clienti delle aziende tedesche di esportare in Russia i prodotti non solo militari, ma anche di uso civile, acquistati dalla Repubblica federale. Un provvedimento che provocherebbe un calo delle vendite per le imprese che, così, andrebbero a rinfoltire il gruppo già numeroso di chi vuole la caduta del cancelliere.
L’indiscrezione giornalistica ha costretto Scholz in persona a rispondere cercando di ricalibrare la posizione della Germania. Non si tratta di un veto, ha spiegato, ma “stiamo lavorando con gli altri intensamente e vogliamo assicurarci che tutto sia fatto nella maniera più pragmatica possibile“.
Parigi, l’altro gigante debole
A tirare il carro dei nemici di Putin, fino a oggi, è stato soprattutto il presidente francese Emmanuel Macron. Non c’è più traccia del campione di diplomazia che chiedeva di “non umiliare la Russia“. Oggi il capo dell’Eliseo chiede di alzare sempre più l’asticella del coinvolgimento Nato in Ucraina, fino a ipotizzare l’invio di truppe sul campo di battaglia. Ma la sua spinta ha perso inerzia dopo il risultato elettorale: doppiato nei consensi dal Rassemblement National di Marine Le Pen, ha tentato il tutto per tutto convocando in fretta e furia elezioni legislative. Ciò che non può nascondere, però, è che al momento è uno dei leader più deboli d’Europa rischiando addirittura di non concludere il proprio mandato in scadenza nel 2027. Per questo, imporre la propria linea nei vertici internazionali e all’interno del Consiglio europeo sarà sempre più difficile.
Il fondo da 50 miliardi e l’incognita Usa
Con le potenze europee in difficoltà, gli Stati Uniti si confermano così la principale speranza per la lotta di resistenza di Kiev. Una garanzia che, però, potrebbe venire meno già a novembre, quando è atteso un testa a testa tra Joe Biden e Donald Trump alle Presidenziali. In caso di vittoria del tycoon, il supporto di Washington alla causa ucraina potrebbe essere molto ridimensionato.
Intanto, dalla Puglia i 7 Grandi tornano sbandierando il risultato del fondo da 50 miliardi di dollari garantito grazie ai proventi dai beni congelati alla Russia. Una fonte di introiti tutt’altro che certa e che, nel caso in cui il ricavato dovesse essere inferiore, costringerà gli Stati a ripianare il debito contratto. Senza contare che anche sulle forniture di armi le difficoltà dei Paesi crescono dopo ogni tranche. Le scorte sono ridotte all’osso e, per garantire la sicurezza nazionale, gli Stati hanno bisogno di riempire i depositi. Non a caso, in cima ai programmi dei principali partiti europei c’è proprio lo sviluppo dell’industria della Difesa e una conseguente crescita della produzione di sistemi d’arma, sia per mettere al sicuro il continente che per continuare a rifornire con continuità l’esercito di Kiev. Un programma che richiederà anni di investimenti e sforzi. Ma l’Ucraina ha bisogno di armi adesso.