In un rapporto intitolato “Un gioco pericoloso?”, Amnesty International ha sollecitato la Federazione internazionale delle associazioni calcistiche (Fifa) ad assicurare in modo rigoroso e trasparente che gli Stati candidati a ospitare i mondiali di calcio maschile del 2030 e del 2034 rispetteranno pienamente i diritti umani e a rifiutare ogni candidatura che rischi di macchiare nuovamente il più grande evento sportivo al mondo.
La mancata adozione di garanzie sui diritti umani in occasione dei più recenti mondiali di calcio ha facilitato le violazioni dei diritti umani. In occasione del campionato del 2022 in Qatar, i lavoratori che hanno reso possibile il suo svolgimento hanno subito gravi violazioni dei diritti umani e molti di loro sono morti o sono rimasti feriti.
Il rapporto di Amnesty International esamina i rischi per i diritti umani collegati alla candidatura congiunta di Marocco, Spagna e Portogallo per i mondiali del 2030 e a quella dell’Arabia Saudita per i mondiali del 2034.
Rischi correlati alla candidatura per i mondiali del 2030
La candidatura congiunta di Marocco, Portogallo e Spagna – che prevede anche lo svolgimento di tre partite in Argentina, Paraguay e Uruguay – comporta rischi riguardanti soprattutto i diritti dei lavoratori, la discriminazione, la libertà d’espressione e di manifestazione, l’operato delle forze di polizia, la privacy e il diritto all’alloggio.
In Marocco sarà prevista la costruzione di grandi impianti, tra i quali un nuovo stadio da 115.000 spettatori. Tuttavia, il pacchetto di norme per rafforzare la salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro non è stato ancora approvato e gli sgomberi forzati sono motivo di preoccupazione.
In tutti e tre gli stati candidati i diritti dei lavoratori migranti sono a rischio di sfruttamento e di altre violazioni, come il traffico di esseri umani. La media degli infortuni sul lavoro in Spagna e in Portogallo è più alta di quella dell’Unione europea. Nel 2023, lavoratori impegnati nell’ampliamento dello stadio Camp Nou di Barcellona hanno subito violazioni dei diritti umani e non hanno ricevuto i salari.
In Portogallo e in Spagna, l’ampio afflusso di tifosi previsto rischia di provocare una grave carenza di alloggi a prezzo accessibile e di aumentare la domanda di affitti a breve termine, col conseguente aumento dei costi o degli sgomberi dei residenti.
L’uso eccessivo della forza, anche con l’impiego di proiettili di gomma, è un rischio consolidato in tutti e tre gli stati, non solo nei contesti sportivi. Tifosi locali e stranieri hanno più volte denunciato l’operato delle forze di polizia in Spagna e Portogallo. Il diritto alla privacy può essere minacciato dall’uso massiccio degli spyware e dalla sorveglianza biometrica, specialmente in Marocco e Spagna.
Una valutazione indipendente effettuata dalla Fifa in relazione alla precedente candidatura del Marocco a ospitare i mondiali del 2026 ha concluso che in quello stato la criminalizzazione degli atti tra persone dello stesso sesso era “particolarmente problematica”. Altre norme in vigore in Marocco continuano a perpetuare il rischio di discriminazione di genere contro le lavoratrici e le tifose: è il caso della criminalizzazione delle relazioni sessuali extramatrimoniali, che spesso impedisce alle donne di denunciare la violenza sessuale subita.
In Marocco la libertà d’espressione è limitata a causa della criminalizzazione delle critiche all’Islam, alla monarchia, alle istituzioni statali, all’esercito e all’integrità territoriale dello Stato. Giornalisti e difensori dei diritti umani vengono minacciati, arrestati, picchiati e processati solo per aver criticato il governo, soprattutto in relazione al territorio conteso del Sahara occidentale.
La discriminazione razziale è un problema in tutti e tre gli stati, emerso anche con gli insulti razzisti nei confronti di calciatori neri come Vinicius Jr. in Spagna, Moussa Marega in Portogallo e Chancel Mbemba in Marocco. Da un sondaggio effettuato nel 2020 è emerso che il 60 per cento dei portoghesi ritiene che ci sia razzismo nel calcio.
Rischi correlati alla candidatura per i mondiali del 2034
L’Arabia Saudita ha agghiaccianti record nel campo dei diritti umani e la sua candidatura comporta un’ampia serie di gravi rischi. Negli ultimi anni il regno saudita ha speso miliardi in una campagna di riabilitazione della sua immagine, soprattutto attraverso investimenti nello sport – compreso il calcio – per distrarre il mondo dalla spaventosa situazione dei diritti umani. Una bozza di codice penale rischia di aggravare le violazioni dei diritti umani fissandole nella legge.
Ospitare i mondiali del 2034 richiederebbe un enorme piano di costruzioni, col conseguente elevato rischio di quegli sgomberi forzati che già si sono verificati nel corso degli attuali progetti, anche mediante l’uso della forza letale, per costruire The Line, che fa parte del progetto di Neom City.
Per rendere possibile lo svolgimento del torneo occorreranno probabilmente centinaia di migliaia di lavoratori edili, la maggior parte dei quali stranieri che già costituiscono la maggior parte della forza lavoro nel settore privato e rischiano di subire violazioni dei diritti umani. Il sistema “kafala”, che vincola per legge lo status di un lavoratore migrante a un datore di lavoro o a uno sponsor, rende molto difficile cercare un rimedio in caso di mancato versamento del salario, di violenza o di altre violazioni dei diritti umani.
La discriminazione è profondamente radicata nelle norme e nella prassi e potrebbe colpire tifosi, lavoratori, calciatori e giornalisti. Le tifose potrebbero rischiare ingiusti e sproporzionati provvedimenti penali, fino al carcere a tempo indeterminato, a causa delle norme che criminalizzano le relazioni sessuali al di fuori del matrimonio e che spesso impediscono di denunciare lo stupro. Il sistema del tutore maschile discrimina le donne e le ragazze.
Nonostante l’Ufficio saudita del turismo abbia assicurato che “ognuno è benvenuto”, non esistono protezioni legali per le persone Lgbtqia+. Queste vengono incriminate per violazione delle vaghe norme sull’ordine pubblico e sulla morale o della Legge sui reati informatici. Ogni professione pubblica di fede diversa dall’Islam è vietata e la minoranza musulmana sciita è vittima di gravi forme di discriminazione. Dodici tifosi sciiti dell’Al Safa sono stati recentemente condannati a pene da sei mesi a un anno per aver intonato un coro tradizionale religioso durante una partita del campionato.
La libertà d’espressione, di associazione e di manifestazione è praticamente pari a zero. Sono vietati i gruppi per i diritti umani, i partiti politici e i sindacati. Giornalisti, difensori dei diritti umani, attivisti politici, scrittori, esponenti religiosi e attiviste per i diritti delle donne vengono regolarmente arrestati. Quasi tutti i difensori dei diritti umani sono sotto processo, in carcere, sottoposti a divieto di viaggio o in esilio. Le norme antiterrorismo, dal contenuto del tutto generico, sono usate per imporre condanne anche a 45 anni di carcere o persino alla pena di morte nei confronti di chi ha, “direttamente o indirettamente”, offeso il re o il principe della Corona.
Non esistono organi d’informazione indipendenti e i giornalisti che criticano il governo rischiano censura, carcere e repressione. Nel 2018 in Turchia il giornalista Jamal Khashoggi è stato vittima di un omicidio approvato dallo Stato saudita. Portali e singoli profili vengono bloccati. Salma al-Shehab, dottoranda presso l’Università di Leeds, nel Regno Unito, è stata condannata a 27 anni di carcere a causa dei suoi post su Twitter (ora X). Manahel al-Otaibi, istruttrice di fitness, è stata condannata a 11 anni per i suoi tweet in favore dei diritti delle donne. I profili social vengono hackerati e lo spyware Pegasus è usato ai danni di attiviste per i diritti delle donne, dissidenti politici, giornalisti e loro familiari.
I tifosi stranieri e i lavoratori migranti potrebbero illudersi di essere esentati dalla pena di morte ma i cittadini stranieri hanno costituito il 39% delle persone messe a morte dal 2010 al 2021. Nel 2022 Amnesty International ha registrato 172 esecuzioni, ai danni di persone di almeno 13 stati, comprese sei donne.