Cronaca

Il primo omicidio delle Brigate Rosse: così 50 anni fa l’assalto alla sede del Msi a Padova divenne una strada senza ritorno

Fu la prima volta in cui le Brigate Rosse uccisero, anche se non avevano premeditato di farlo. Il 17 giugno 1974, cinquant’anni fa, ha segnato una svolta nella storia tragica del terrorismo di marca brigatista, che da allora conobbe un’escalation, culminata nel 1978 nel rapimento e nella morte di Aldo Moro. In quel giorno di fine primavera, tre settimane dopo la strage neofascista di Piazza della Loggia a Brescia, nella sede del Movimento Sociale Italiano, in via Zabarella a Padova, vennero prima feriti e poi freddati, ciascuno con un colpo di pistola alla testa, i militanti Giuseppe Mazzola, 60 anni, appuntato dei carabinieri in pensione, e Graziano Giralucci, rappresentante di commercio, non ancora trentenne, padre di una bambina di tre anni. Il dibattito che seguì, all’interno del movimento, sull’opportunità di rivendicare l’azione (fu fatto trovare un volantino due giorni dopo), e i dubbi iniziali sulla effettiva matrice brigatista sono due dati importanti per capire che cosa ebbe inizio a Padova e quale fosse il contesto dello scontro politico-terroristico di quegli anni.

L’azione finita nel sangue
Il commando era costituito da cinque persone. Fabrizio Pelli (morto in carcere di leucemia nel 1979) fu l’esecutore materiale degli omicidi. Assieme a lui, nella sede del Msi, era entrato Roberto Ognibene. Martino Serafini e Susanna Ronconi erano rimasti nell’androne del palazzo. All’esterno, Giorgio Semeria, arrivato da pochi giorni in Veneto, con il compito di palo e autista. Accanto ai corpi senza vita di Giralucci e Mazzola vennero trovate 9 catenelle in ferro, della lunghezza di 50 centimetri, con altrettanti lucchetti e un rotolo di nastro adesivo. L’intenzione era quella di compiere un’azione dimostrativa. L’operazione avvenne alle 9.30 del mattino, anche se qualcuno aveva suggerito di entrare di notte, compiere un furto e lasciare scritte sui muri. Si preferì per un’azione più eclatante, alla luce del sole. Ma non andò come previsto. I due missini vennero incatenati, poi Pelli si avviò verso l’ufficio del segretario di sezione. A quel punto, secondo la versione dei terroristi arrestati, Mazzola afferrò la pistola con silenziatore impugnata da Serafini. Partì un colpo che ferì l’uomo alla gamba destra. A quel punto intervenne Pelli che sparò a Giralucci a una spalla, poi colpì entrambi alla fronte.

Rivendicazione tardiva
La decisione se rivendicare il fatto provocò un dibattito, perché l’evento non era previsto. Serafini spiegò: “La sede padovana del Msi fu scelta perché al centro di fatti di grande rilevanza nazionale, come la strage di piazza Fontana e Piazza della Loggia a Brescia e la cosiddetta Rosa dei Venti, senza mai esserne coinvolta a livello giudiziario”. Il giorno dopo alcuni terroristi si incontrarono a Mestre per discutere, poi si trasferirono a Piacenza. Ad agire erano stati i veneti, ma l’epilogo era diventato un fatto che interessava tutta l’organizzazione, la quale doveva fare i conti con gli omicidi e decidere se rivendicarli. Ciò avvenne il 18 giugno, con una telefonata alla redazione de Il Gazzettino che fece trovare alcuni volantini in cabine telefoniche a Milano e Padova. Le due vittime erano definite “assassini”: “Il loro recente delitto è la strage di Brescia”. Qualche tempo dopo, in uno scritto apparso su Controinformazione e attribuito ai vertici brigatisti, si giustificava il salto di qualità della violenza: “A chi pensava che si potesse procedere all’infinito con azioni di propaganda armate, innocue, simpatiche, alla tupamaros prima maniera, le Brigate Rosse hanno risposto che quando si agisce davvero gli incidenti sono sempre in agguato…”. L’ex religioso Silvano Girotto (“Frate mitra”) rivelò che Renato Curcio gli avrebbe confidato: “Bisognava anche sapere che, se necessario, le Br uccidevano”.

Da allora cambiò tutto
L’organizzazione promosse un’inchiesta interna, mandando in Veneto Alfredo Buonavita per ricostruire come fossero andati i fatti. Le indagini di polizia e carabinieri in una prima fase non imboccarono decisamente la pista del terrorismo rosso, visto che venne coltivata anche l’ipotesi di una faida interna agli ambienti di destra (all’epoca suggerita da Potere Operaio). Questo la dice lunga sul clima di quegli anni e sulla difficoltà (se non addirittura prevenzione) nel mettere a fuoco le matrici dei fatti di terrorismo. La sentenza della Corte d’Appello di Venezia del dicembre 1991 stabilì: “L’azione era stata ideata e posta in essere al solo fine di ‘occupare militarmente’ la sede del Msi, immobilizzare e imbavagliare le persone presenti, perquisire il locale e asportare materiale… il reato concordato era sicuramente una rapina”. Poi però non avevano esitato ad uccidere. Così le persone del commando furono condannate per concorso pieno in omicidio volontario.

Colpevoli anche i capi
Le Brigate Rosse avevano imboccato una strada senza ritorno. Non a caso furono condannati per concorso morale nei due omicidi anche i capi Renato Curcio, Mario Moretti e Alberto Franceschini, che però negarono di avere autorizzato l’irruzione nella sede del Msi di Padova, dicendo di aver dato solo un generico benestare a un’azione da parte del gruppo veneto. Le pene furono di 16 anni e due mesi per i primi due, due anni in più per Franceschini. I giudici d’appello hanno scritto: “Erano i maggiori capi storici delle Brigate Rosse, cioè coloro che non solo hanno posto le fondamenta della banda armata che per molti anni ha insanguinato il Paese con efferate azioni terroristiche, ma hanno guidato anche dall’interno delle carceri i compagni delle varie ‘colonne’ e hanno dettato la linea della politica rivoluzionaria dell’organizzazione”.