Qualche settimana fa c’è stato un accordo tra il maggior sindacato di categoria dei medici di medicina generale e Legacoop, per “una ridefinizione delle cure territoriali con implementazione delle linee di investimento del Pnrr”. Politichese di non facile comprensione anche per gli addetti ai lavori, soprattutto per gli aspetti riguardanti la redistribuzione degli utili per Legacoop in seguito ai suoi investimenti nei servizi sanitari territoriali e i costi di adesione e di iscrizione dei medici alle cooperative.

Restano anche poco evidenti le fonti del finanziamento delle cure territoriali che, da quel che è possibile comprendere, a partire dal Pnrr sono tutte “quelle pubbliche della fiscalità generale, quelle integrative preventivamente versate con altri strumenti e anche quelle di spesa sanitaria diretta”. Che significa tutto questo?

Significa la morte della medicina generale, l’esternalizzazione dell’ultimo baluardo del servizio sanitario pubblico, i medici di famiglia – i cui studi, con tutte le difficoltà e le pecche che conosciamo, erano comunque dei presidi territoriali capillarmente diffusi sul territorio, facilmente accessibili nelle città come nei piccoli paesi.

L’indipendenza, la capillarità, l’accessibilità della medicina generale sono state le armi vincenti di un sistema pubblico che, producendo salute, ha realizzato benessere sociale e ricchezza. In futuro saranno ben più di tre milioni e mezzo gli italiani senza medico; perché essere costretti, per poter lavorare, a far parte di una cooperativa o servirsi di una cooperativa o società di servizi non può e non deve essere elemento fondante per svolgere l’attività di medico di famiglia.

Sindacato uguale impresa non porta vantaggi né alla categoria rappresentata né ai pazienti che ad essi afferiscono. L’inquadramento giuridico del medico di medicina generale fortemente sostenuto dai sottoscrittori dell’accordo di cui sopra è quello di libero professionista convenzionato. Status, questo, inconciliabile con quanto richiesto dalla categoria a partire dal riconoscimento dell’infortunio sul lavoro (i familiari dei medici di medicina generale morti per Covid non sono stati risarciti come i medici dipendenti), la tutela della maternità, una maggiore attenzione ai tempi di conciliazione vita lavoro, considerato che più del 60% dei medici oggi in servizio è donna e, si sa, sulle spalle delle donne, qualsiasi professione o mestiere facciano, ricade il maggior carico di lavoro familiare e pratiche di accudimento.

Ogni Sindacato cerca, insieme alle tutele, di offrire servizi ai propri iscritti; ma quando un sindacato di tutela si trasforma in sindacato di servizi è chiaro che si è deragliato verso tentazioni imprenditoriali che, in maniera fin troppo pervasiva, stanno condizionando la stipula dei contratti di lavoro della categoria medica degli ultimi dieci anni.

La libera professione pura è sempre più difficile da gestire per il medico singolo, sulle cui spalle, oggi, sono caricati tutti i rischi di impresa, con ben pochi utili e vantaggi e con obblighi nei confronti dell’Ente che ci convenziona che sempre più ci assimila a personale dipendente senza averne, però, le tutele.

E’ chiaro che il singolo medico non può farsi carico 24/7 dei pazienti che ha in cura, anche se è questo il messaggio che nel tempo si è fatto passare e anche se, a onor del vero, quando gli studi dei medici di medicina generale sono chiusi, esistono servizi complementari ormai in dismissione, come le guardie mediche e il servizio 118.

Per la complessità dell’erogazione dei servizi richiesti ai singoli medici di medicina generale gli stessi sono stati obbligati, da una legge dello Stato prima e da un accordo di lavoro poi, a costituire le Aggregazioni Funzionali Territoriali, gruppi di 20 medici che gestiscono circa 30.000 pazienti. Ma per gestire 30mila pazienti ci vogliono strutture, personale ed organizzazione. Come possono fare gruppi di medici ad assumere infermieri, segretarie o, anche, semplicemente intestarsi il contratto della luce dei poliambulatori? In questo intervengono le cooperative o società dei servizi che i medici pagano per riuscire a continuare a lavorare.

E poi c ‘è la logistica di cui si occupa l’Enpam, la cassa previdenziale dei medici, che ristruttura con i soldi dei medici stessi edifici dismessi per trasformarle in Case della Salute (lì dove lo Stato ha disinvestito riducendo le Case della Salute da 1200 delle iniziali previste dal governo precedente a circa 800) e dandole in affitto ai medici che pagano, per continuare a lavorare, gli spazi da loro stessi ristrutturati.

Qual è, quindi, la soluzione offerta ai medici del terzo millennio? Trasformarsi in imprenditori o, alla lunga, per chi non sente il business come vocazione da perseguire in parallelo all’esercizio della nobile arte di Ippocrate, diventare dipendenti di imprenditori.

Quando l’impresa italiana o estera che sia, sarà entrata, come già è entrata, nella gestione della sanità territoriale, la sanità non sarà più pubblica perché gli imprenditori dovranno guadagnare, anche se il guadagno scaturisce dalla gestione della salute dei cittadini italiani. Con questo patto, purtroppo sottoscritto da chi dovrebbe difendere i lavoratori, si è aperta una porta alla dismissione di un altro asset strategico per il nostro Paese, al pari di altri che abbiamo svenduto a poche lire; mi riferisco alla sanità, alla salute, alla scuola.

Ma cosa succederà per chi ha scelto di fare il medico e basta? Cosa succederà ai cittadini? Quanti medici saranno disposti a lavorare in queste condizioni? Una sanità pubblica non può prescindere dal ruolo pubblico dei medici che vi lavorano, dove per ruolo pubblico intendo sia un rapporto di lavoro dipendente sia convenzionato che continui a prevedere un’interfaccia diretta tra l’Ente Pubblico e i suoi medici, senza necessità di intermediari. Si è già visto quello che è successo negli ospedali con i medici a gettone.

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