La Dolce Vita, 1960. Dialogo notturno in una Piazza del Popolo notturna e deserta tra Marcello Mastroianni e Anouk Aimée, fatalissima con enormi occhiali e un attillato abito, neri come l’oscurità della notte. Ha l’aria di una intellettuale sartriana, da Rive Gauche, da Nouvelle Vague… Anouk interpreta il ruolo di una donna ricca, annoiata, di una sensualità intrigante. Dice che è stufa di vivere a Roma. Vorrebbe un’isola tutta per se, potrebbe persino comprarsela. Mastroianni, alias Marcello, al volante di una Cadillac decapottabile, replica che a lui Roma piace tantissimo, “è una specie di giungla tiepida, tranquilla, dove ci si può nascondere bene”.
Scendono dall’auto. Maddalena si guarda attorno, in quella immensa piazza vuota e piena d’ombre: “Uffa, anche Roma, che noia… mi ci vorrebbe un’isola”. “Se la compri”. “Ci ho pensato: ma poi ci andrei?”. “Sai qual è il suo guaio, Maddalena? Di avere troppi soldi!”. Maddalena: “E il tuo è che ne hai troppo pochi”.
Anouk Aimée è morta oggi, 18 giugno 2024, a 92 anni, e ben 64 dopo l’epocale film di Fellini, dopo il suo celebre spogliarello tanto scatenato quanto disperato, e tuttavia così morboso da rendere scialbe tutte le nostre compagne di scuola, anche quelle più invidiate. Lei era il simbolo della “femmina libera”, dell’ozio padre dei vizi, come ripetevano nelle parrocchie e nelle scuole, la libertà sessuale allora era fustigata dalla Chiesa, dai bigotti, dai benpensanti, dagli ipocriti, e tuttavia si incarnava nei sogni e nei desideri di tutti.
L’anno dopo, eccola diventare Lola in un film bianconero che all’epoca era proibito ai ragazzini (venne girato nel 1960, da noi arrivò faticosamente e ben censurato nel 1961 col titolo involgarito Lola, donna di vita): fa l’entraineuse in un cabaret del porto di Nantes (la città di Giulio Verne, e delle infinite fantasie…), i suoi tacchi sbattono sui ciottoli dei vicoli, ogni tanto per mantenersi si prostituisce… indossa, nelle sue esibizioni, una guêpière (di pizzo nero, il colore del peccato). La sua interpretazione è meravigliosa. In una scena, dei marinai americani in uniforme saltano da una giostra all’altra e uno di loro pensa che lei sia “la donna più bella che conosco”. Non gli possiamo dar torto (ho rivisto il film qualche anno fa…). In realtà Lola non si chiamava Lola, sono sette anni che attende il ritorno di Michel, padre del figlio che le ha lasciato, dopo essere partito per gli Stati Uniti…insomma, un melodramma in cui Anouk, che credeva nel grande amore, il primo, l’unico, è di struggente bellezza, una bellezza particolare, aguzza, che ti attraversa l’anima.
In realtà Anouk Aimée non si chiamava così ma Françoise Dreyfus. Venne ribattezzata nel 1947 (!) per il suo primo film, La Maison sous la mer. Il suo personaggio si chiamava Anouk. Jacques Prévert le impose un nuovo cognome, Aimée, Amata. Le disse: “Con questo nome, il futuro è tuo”. Era una predestinata.
In collegio, a Morzine, si ritrovò con Roger Vadim: gli insegna a sciare. Resteranno amici per una vita. Da ragazzina aspirava a diventare una farmacista, ma anche una ballerina classica. Fu il cinema a risolvere il dilemma: la rapisce e le offre ruoli particolari, problematici, introversi (uno dei titoli: Les Mauvaises Rencontres, 1955).
Fellini l’adorava e la volle assolutamente. Molti anni dopo La Dolce Vita, le disse, con sincera ammirazione: “Il tempo con te si comporta come un gentiluomo”. La sceglie anche per Otto e mezzo, come moglie del protagonista, un regista travolto da crisi esistenziale e creativa: look ormai identitario, stiloso, la riconosci subito, capelli corti scuri, gli onnipresenti occhiali scuri… questa signora Luisa non riesce a dormire senza tranquillanti, mentre si assiste al lento sfaldarsi dei rapporti coniugali, e all’ingorgo esistenziale che travolge Guido (Mastroianni), il regista che si trova sommerso dalla confusione e dal disordine della vita (in realtà, è una sorta di autobiografia felliniana), i rapporti di Guido con Luisa e l’amante, col lavoro, con gli estranei, “coi guru della Chiesa e della Critica”, lessi in una entusiastica recensione, se ben ricordo, del grande Morando Morandini (ebbi la fortuna e l’onore di conoscerlo e prima ancora conobbi Pietrino Bianchi, un gigante della critica cinematografica).
Il terzo ricordo che ho di Anouk è quello di Un uomo una donna. Il vedovo Jean-Louis Trintignant – cullato dalla musica romanticissima e carezzevole di Francis Lai – attraversa tutta la Francia con una splendida Mustang col numero 184 sulla portiera (chi se la scorda? Era l’auto preferita da mia madre, che tuttavia detestò quel film…); per raggiungere Anouk a Deauville, al Nord, una Sanremo amata dai parigini, gli spettatori patirono le pene del cuore di Trintignant. Affinità elettive li univano. E non solo: il destino.
Anne, ossia Anouk, infatti, è pure lei una vedova. Un uomo e una donna è un fotoromanzo in movimento. Gronda sentimentalismo da tutte le parti. Accalappia i semplici. Mulino Bianco, alla fin fine. Già. Sembra uno spot, un Carosello d’amore, di separazioni e ritrovamenti. Fece lacrimare milioni di persone. Consacrò il fascino di Anouk, il vigore suggestivo dei suoi sguardi, facendo dimenticare l’oleografia della favola. Siamo nel Sessantotto. Forever young. And Love.
Anouk Aimée è stata una grandissima, intensa, seducente attrice. Una musa del cinema. E della cultura. Evanescente e paranoica, in tante sue “prestazioni d’opera”, ma umana come nessuno in tutte le sue debolezze e le sue effimere esagerazioni. Ispirò scrittori e poeti, musicisti e teatranti. Le dedicarono un profumo (Ungaro), Henry Miller (!!!) le scrisse il proprio indirizzo e numero di telefono nella sua agendina. Consumava la sua terza età a Montmartre, con cani e gatti, nella sua bohème mentale diceva spesso che aveva vissuto spesso su una nuvola, come capita spesso anche a noi.
Confessò di avere un ricordo “sublime” di Fellini e Mastroianni, “magico” addirittura. Era francese sin dentro le ossa. Ma anche italiana. Ma anche europea. Detestava l’irruzione del populismo, della canaglieria di destra, della volgarità politica. Era contro l’intolleranza. E le pareva di sprofondare nelle sabbie non più immobili di una società languente e agonizzante.