di Marco Pozzi
“Generalmente non è descrivendo il raggiungimento della vetta che agli alpinisti capita di citare il silenzio, quanto piuttosto nel resoconto dell’ascesa o della discesa, ovvero nei momenti più intensi e delicati: è allora che il silenzio assoluto fa capolino. E non viene prodotto dalla negazione di qualsiasi spettro acustico, bensì dalla tensione – insostenibile eppure in qualche modo sostenuta – racchiusa in quei gesti che per non diventare mortali esigono perfezione assoluta.
Osservando e ripercorrendo le imprese degli esploratori e degli alpinisti, è normale se non inevitabile domandarsi cosa li spinga a rischiare la vita arrampicandosi su pareti di roccia e ghiaccio. Cosa li spinga a cercare nuove vie o a ripercorrere quelle più esigenti, a trascorrere giorni e notti in situazioni estreme. Alcuni affermano che è il risultato dell’amore per la libertà e per l’assoluto, il desiderio di vivere una natura meno depredata. Altri, malevoli, sostengono che si tratti di un’ossessione fomentata da una forma di arroganza e ambizione fuori controllo, che spinge a esaltare la vita in circostanze assurde, mettendola a repentaglio in modo apparentemente gratuito.
Come spesso accade, ogni risposta è sbagliata o parziale, ma nondimeno ospita al proprio interno un frammento di verità. Si può ben dire che la montagna, e la sua indagine più spericolata, l’alpinismo estremo, siano capaci di stregare indissolubilmente uomini e donne ai quali, in cambio, concedono momenti in cui la vita è più accesa, più intensa. Al pari dei mistici, i cui occhi segnati dal bagliore passeggero della grazia inseguono la sua scia in un mondo di ombre, gli esploratori delle vie più impervie, dopo aver assaporato porzioni di vita al di fuori del tempo e dello spazio, le ricercano con l’ostinazione concessa soltanto agli amanti”.
La citazione è lunga e può sembrare un trucco per non sforzarsi troppo a scrivere questo post. Ma è talmente bella che è difficile da tagliare. È tratta dall’introduzione di un libro pubblicato nel 2023 dall’editore 66thand2nd: Nanga Parbat. L’ossessione e la montagna nuda, scritto da Orso Tosco. Colpisce anche perché sembra in qualche modo complementare a quanto scritto poche settimane fa, sul silenzio che si vive durante un’immersione subacquea.
Sott’acqua o in alta quota, più in basso o più alto rispetto alla dimensione in cui siamo abituati a vivere, ci si accorge che quello che chiamiamo “il mondo” è invece solo uno dei tanti mondi, uno che rendiamo abitabile con le nostre regole e convenzioni, ma che la Natura ogni tanto si preoccupa di smentire, suggerendo ai nostri sensi e ai nostri pensieri possibilità che ancora generano stupore.
Esistere in alta quota, in mezzo alle vertigini fra le montagne, oppure nelle profondità di un’immersione, con pochi metri d’acqua a sovrastarci, suggerisce qualcosa di sconosciuto, che plasma diversamente la nostra idea di “abilità” e “disabilità”. Cosa posso fare mentre cammino in mezzo a vette imperiose, dentro valli sconfinate a cui soltanto pendici impossibili fanno da confine? o mentre l’acqua mi comprime ogni millimetro di pelle, e sembra di volare leggero nella più sublime libertà, con la pressione che rallenta ogni movimento, e nella testa assilla la consapevolezza d’esser assolutamente dipendente da un boccaglio, senza il quale ogni tentativo di respirazione sarebbe letale?
Cosa posso fare? Cosa devo fare?
Forse il grande fascino dell’alpinismo e della subacquea deriva proprio da qui. Dal poterci mettere alla prova, sottoporci a condizioni inusuali, persino estreme, grazie alle quali esplorare parti nuove di noi stessi. Una specie di esercizio esistenziale, un allenamento interiore verso una competizione in cui, parafrasando il Dostoevskij nei Fratelli Karamazov, il campo di gioco è il cuore d’ogni essere umano.