Interventi e riforme varati nell’ultimo ventennio non hanno semplificato il ginepraio del sistema fiscale italiano né ridotto la pressione del fisco sui redditi. Se si guarda solo all’Irpef, negli ultimi dieci anni il carico invece si è un po’ ridotto, ma “spesso a scapito dell’equità del prelievo e della sua capacità redistributiva“. E l’effetto negativo del cosiddetto drenaggio fiscale, cioè l’incremento del prelievo per effetto dell’inflazione, più che compensa quello positivo determinato dalle modifiche normative: a parità di potere di acquisto, nel 2024 i lavoratori dipendenti senza carichi familiari pagano aliquote medie generalmente superiori a quelle che pagavano nel 2014. È la sintesi della corposa analisi dell’Ufficio parlamentare di bilancio sull’evoluzione della tassazione su famiglie e imprese, contenuta nel Rapporto annuale sulla politica di bilancio. Che contiene anche un avvertimento al governo sul taglio del cuneo potenziato, misura bandiera che il ministro Giancarlo Giorgetti continua a promettere di prorogare anche per il 2025: per come è disegnato, incentiva i lavoratori a non superare la soglia di reddito oltre la quale si perde il beneficio. Trasformandosi quindi in quella che gli economisti definiscono “trappola della povertà”.

L’Irpef è stata profondamente modificata nella struttura, “con il ridisegno del profilo delle aliquote, degli scaglioni e delle detrazioni”, e nella base imponibile, “con l’esclusione di diversi cespiti dal principio della progressività”. L’introduzione del bonus 80 euro nel 2014, vista la necessità di “garantire un guadagno pro capite significativo contenendo la perdita di gettito”, ha determinato una serie di pesanti distorsioni delle aliquote effettive generando aliquote marginali fino all’80% per chi era vicino al tetto di 26mila euro di reddito oltre il quale si perdeva il beneficio. Con conseguente impatto negativo sulle “scelte individuali sull’impegno lavorativo” e sui rinnovi contrattuali. Non a caso gli interventi successivi – 2017, 2020 e 2021 – sono stati “principalmente motivati dalla necessità di correggere le distorsioni sulle aliquote effettive beneficiando prima i contribuenti con livelli intermedi di reddito (tra 28.000 e 40.000 euro) e poi i redditi oltre i 40.000 euro”.

Ma i governi, sottolinea l’Upb, sembrano essersi dimenticati di affrontare un altro problema: il drenaggio fiscale, cioè l’incremento del prelievo derivante dalla mancata indicizzazione del meccanismo di calcolo dell’imposta in funzione della variazione del potere d’acquisto. Un tema che ha assunto “rilevanza alla luce della crisi inflazionistica iniziata nel 2021 e protrattasi fino al 2023”, spiega l’Upb. Per un lavoratore dipendente senza carichi familiari le riforme hanno determinato “una riduzione dell’aliquota media lungo tutta la distribuzione del reddito”. Ma se si considera l’effetto del drenaggio fiscale, l’aliquota media aumenta per quasi tutti i livelli di reddito”.

Dall’analisi condotta con il modello di microsimulazione dell’Upb emerge che “per il complesso dei lavoratori dipendenti le modifiche normative hanno comportato una riduzione del prelievo di circa 3 punti percentuali, che viene tuttavia più che compensata dall’effetto del drenaggio fiscale, pari a circa 3,6 punti percentuali, con un saldo sul reddito disponibile negativo per circa 0,6 punti. Per i pensionati e gli autonomi entrambi gli effetti, della normativa e del drenaggio fiscale, sono di entità minore”. Alle modifiche della struttura dell’imposta personale si è affiancata una “progressiva erosione della base imponibile dell’imposta”: è stata sottratta alla progressività dell’Irpef “una quota rilevante del reddito da lavoro autonomo, comportando una violazione del principio di equità orizzontale del prelievo, creando disparità di prelievo sia tra percettori di diverse tipologie di reddito (lavoratori autonomi e dipendenti), sia tra lavoratori autonomi”.

La decontribuzione in vigore nel 2024 per i redditi inferiori a 35.000 euro “più che compensa l’incremento di imposta reale” e ha un impatto positivo sulla progressività del prelievo. Ma “altera nuovamente il profilo delle aliquote marginali effettive sul reddito da lavoro dipendente”. E la distorsione è tale da “generare una trappola della povertà vicino alle due soglie di reddito oltre le quali si abbassa o viene meno lo sgravio contributivo (25.000 e 35.000 euro), con aliquote marginali superiori al 100 per cento”. Tradotto: l’aumento di un solo euro del reddito comporta una diminuzione dello sconto, e quindi del reddito disponibile, di circa 150 euro quando si superano i 25.000 euro lordi e di circa 1.100 euro superati i 35.000 euro lordi. Un fenomeno “estremamente rilevante se la decontribuzione dovesse diventare permanente. Da un lato, indurrebbe un forte disincentivo al lavoro, e dall’altro, renderebbe più difficile raggiungere nuovi accordi contrattuali, questione che assume particolare importanza dopo la perdita di potere d’acquisto causata dall’inflazione”. Per non determinare riduzioni del reddito disponibile, l’aumento del salario dovrebbe infatti essere tale da compensare la perdita del beneficio contributivo. “Con il sistema attuale, considerando dunque anche le alte aliquote fiscali, sarebbe necessario un aumento di salario di circa 2.000 euro per neutralizzare gli effetti del superamento della seconda soglia”.

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