L'analisi di Davide Bennato, docente di Sociologia dei media digitali all’Università di Catania: "Quello che voleva dire blog nel 2014 per un 18enne non è quello che vuol dire ad un 18enne nel 2024"
Una traccia per il tema della maturità sulle trasformazioni del mondo digitale datata 2014 dove si parla pure dei vetusti blog. Non sono pochi i mugugni nati dopo aver letto la Proposta C2. Un brano di un articolo di Maurizio Caminiti – Profili, selfie e blog – risalente a dieci anni fa dove viene messa in evidenza la forma di “diario digitale” come rappresentazione di sé rivolta agli altri e non più alla ricerca di sé attraverso il racconto della propria esperienza interiore. La commissione ministeriale suggerisce oltretutto una chiave di lettura siffatta: “nel brano l’autore riflette sul mutamento che ha subito la scrittura diaristica a causa dell’affermazione del blog e dei social”. “Questi poveri ragazzi hanno tutta la mia vicinanza morale da padre e da esperto di strumenti digitali”, ironizza Davide Bennato, docente di Sociologia dei media digitali all’Università di Catania.
Professore, che giudizio darebbe alla traccia
Si poteva fare meglio. Ci sono due problemi in questa traccia: uno di linguaggio e uno ideologico. Partiamo dal linguaggio. Se dici a un ragazzo di 18 anni del blog, e lo dico a ben vendere perché insegnando all’università a Scienze della Comunicazione ho il polso della situazione, a quello non gli viene in mente un diario online ma, che so, uno spazio con le opinioni dei giornalisti sui loro giornali, qualcosa che viene percepito come una fanzine di una volta, un magazine dove trovi appassionati, ad esempio, di manga, videogioco, cinema. Quando gli chiedo di citarmi un blog qualunque, mi citano Lercio. Quello che voleva dire blog nel 2014 per un 18enne non è quello che vuol dire ad un 18enne nel 2024.
Poi abbiamo il problema ideologico…
Il modo con cui espressa la traccia non è sbagliato in senso scientifico. Il fatto che i blog siano uno spazio di rappresentazione identitaria che si deve confrontare con uno spazio più pubblico che privato è nella natura delle cose. Però il punto di vista è sbagliato, quello di un bibliotecario: cioè i qualcuno abituato al testo scritto, qualcuno che dimentica che gli oggetti testuali che stanno online non sono testi classici, cioè dello scrivere per lo scrivere, ma sono testi relazionali. Io scrivo perché presuppongo una risposta dall’altra parte, il like nei social, ad esempio.
Come mai si è spesso così imprecisi sui temi che riguardano i media digitali?
È una questione talmente complessa che ci ho fatto un libro con Laterza (Sociologia dei media digitali ndr). È necessario avere una tassonomia dettagliata delle strategie di comunicazione online perché a piattaforma diversa corrispondono spazi sociali, quindi strategie di relazioni sociali profondamente diverse. Il blog riproduce l’esperienza di linearità del sito web. Ogni giorno sul blog pubblico qualcosa, con una cronologia rispettata nell’aspetto formale (ovvero mi appare giorno mese anno). Il blog ha una sorta di coerenza identitaria. I social network invece sono un posto profondamente diverso. Il patto comunicativo è che tu non devi dirmi il tuo flusso di coscienza, ma ti devi connettere con altre persone e sulla base di questa connessione costruisci una tua identità pubblica: ad esempio posti un video e racconti che ti ha divertito, che tizio o caio ti sono simpatici, pubblichi il link ad un articolo letto, ecc… è una forma identitaria di messa in scena.
Lontani, insomma, i tempi di Splinder…
Comincia con quello. Usavamo pure i nickname. Ora non esistono più: hanno smesso di pagare i server e tutti i blog dell’epoca sono scomparsi dalla rete. Oggi per i blog c’è WordPress.
Lei ha 52 anni: come ha vissuto già da adulto questo passaggio dal blog ai social?
I social hanno radicalizzato il personal branding. Una persona condivide con altre persone qualunque cosa e comunque viene vista. I social sono uno spazio aperto, i blog erano una cameretta.
Anche la forma romanzo a livello letterario sta diventando sempre più biografico-narcisistica, se non raccontiamo l’affermazione di qualcosa di noi stessi sembra che ci perdiamo per strada qualcosa…
Questo è zeitgeist. La forma romanzo dell’ottocento nasce per rendere letteraria l’esperienza collettiva. Guerra e pace, ad esempio, è il racconto dell’impatto individuale avuto con le guerre napoleoniche. Poi ogni autore si sceglie il punto di vista che vuole: dall’individuo verso la storia (americani e inglesi sono maestri) o la storia con s maiuscola (qui erano bravi i russi). Oggi invece viviamo in una società frammentata. Io sono un alieno rispetto anche solo al mio vicino di pianerottolo. Pur vivendo lo stesso spazio fisico, non viviamo lo stesso mondo sociale. Questa ultra frammentazione ha legittimato il fatto che anche in letteratura ogni romanzo rappresenti il proprio punto di vista sul mondo, ma non c’è esperienza collettiva. Per questo gente come Zerocalcare sembrano maitre à penser. Perché si portano appresso nei fumetti un’esperienza individuale che diventa generazionale. Se lui cita il rapporto con la madre, il padre, l’amica suicida, usando i cartoni animati, i videogiochi, le serie tv, lo capisce pure uno che quell’esperienza non l’ha condivisa.