“Abbiamo aiutato Massimiliano perché lo ritenevamo fosse nostro dovere farlo per aiutarlo a interrompere una situazione di tortura a cui era sottoposto. Se tornassimo indietro lo rifaremmo per lui e per tutte le persone che sono nelle sue condizioni”. Marco Cappato dell’associazione Luca Coscioni lo ribadisce a margine dell’udienza pubblica alla Corte Costituzionale chiamata ad esprimersi per la seconda volta sul “suicidio medicalmente assistito”.

A sollevare la questione davanti ai giudici costituzionali è stato il giudice per le indagini preliminari di Firenze, nell’ambito del procedimento che vede indagati, oltre allo stesso Cappato, Felicetta Maltese e Chiara Lalli che, nel 2022, si autodenunciarono per l’aiuto fornito a Massimiliano, un 44enne malato di sclerosi multipla, per andare in Svizzera dove morì col suicidio assistito. “Il governo ha voluto costituirsi in questo giudizio con una linea con la quale discenderebbe un’applicazione tale da esporci a una condanna da 5 a 12 anni – ha aggiunto Cappato – Noi andremo avanti finché questo diritto non sarà stabilito in questo Paese”.

L’uomo, 44 anni, di San Vincenzo (Livorno), morì l’8 dicembre 2022 in una clinica vicino a Zurigo, tre giorni dopo aver diffuso l’appello, tramite l’associazione Coscioni, in cui spiegava di soffrire da 6 anni “di una sclerosi multipla che mi ha già paralizzato” e di voler “essere aiutato a morire senza soffrire in Italia, ma non posso, perché non dipendo da trattamenti vitali”, una delle quattro condizioni fissate nella sentenza della Consulta sul caso di dj Fabo. Per la Corte Costituzionale il suicidio assistito è legale quando la persona malata ha una patologia irreversibile, fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche, pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale.

Contro una “interpretazione ampliativa” si è costituito il governo alla Consulta: se fosse confermata dalla Corte Costituzionale una interpretazione restrittiva, Cappato, Maltese e Lalli rischiano una condanna fino a 12 anni di carcere. “Noi, Felicita, Chiara e io abbiamo aiutato Massimiliano perché ritenevamo e riteniamo che era nostro dovere farlo per aiutarlo a interrompere una condizione di tortura alla quale era sottoposto. Se tornassimo indietro lo rifaremmo per lui e per le persone nelle sue condizioni e riteniamo importante la decisione finale”, ha dichiarato Marco Cappato.

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