di Susanna Stacchini

Era il 1981 quando ho votato per la prima volta. Da lì non ho saltato un’elezione, politica, europea, regionale, comunale, referendum compresi, niente. Mi sono presentata al seggio elettorale, anche quando non mi sentivo pienamente rappresentata dalle offerte politiche in gioco. L’ho fatto sempre e comunque, consapevole del valore di quel gesto. Ho sempre considerato l’esercizio del diritto di voto un dovere e un segno di vera riconoscenza, verso tutte quelle donne e uomini che sono morti, proprio per garantire a noi un insostituibile strumento di democrazia.

Così anche l’8 e il 9 giugno mi sono recata alle urne e in questa tornata elettorale, oltre alle europee, ho votato per le amministrative. Per la prima volta però ho provato disagio nel votare per il mio Comune. Sapevo che avrei trovato un’unica lista di candidati. Sapevo che ci sarebbe stata una sola possibilità di scelta, fatta eccezione per la scheda bianca o nulla. Ma pur sapendolo, quando nella cabina elettorale ho aperto la scheda, non ci potevo credere. Il messaggio era chiaro, inequivocabile: o noi, o niente.

Ora, indipendentemente dall’opinione politica di ognuno, qualunque essa sia, ho trovato la presenza di una sola lista un segnale inquietante che non mi ha lasciata indifferente. E nonostante si tratti di un’eventualità regolamentata per legge, attraverso pesi e contrappesi, quali il quorum e il numero dei voti percentuali, in una democrazia cosiddetta avanzata resta una nota stonata. Nessuno può sentirsi pienamente soddisfatto, quando pur rimanendo nel perimetro democratico ci si appresta a governare in assenza di opposizione.

Sono cresciuta in una famiglia in cui mai si è lesinato il confronto. Fin da piccola, mi sono trovata in mezzo a discussioni che ascoltavo incuriosita. Poi, intorno alla fine degli anni 70, ho iniziato ad affacciarmi personalmente alla politica. Una politica davvero partecipata, di cui mi è rimasta solo la memoria. Ricordo gente, di qualunque estrazione sociale, di qualunque grado di istruzione, di qualunque livello culturale, dire la sua nelle case, per strada, al bar, in piazza. Un contesto storico in cui la politica era aggregazione e la diversità di vedute uno sprone al confronto.

Capannelli di persone più o meno ovunque, pronte a dare vita ad accesi dibattiti. Era scientifico, nessuno convinceva nessuno e ognuno rimaneva della propria opinione, ma non per questo si odiavano. Ricordo cortei e manifestazioni a sostegno di idee e a salvaguardia di diritti calpestati o anche solo minacciati. Ricordo comizi di politici e sindacalisti in piazze gremite di gente. Ricordo assemblee pubbliche in cui le persone erano attive, intervenivano, senza per questo sentirsi eroi. Oggi invece la paura ha ripreso il sopravvento e la possibilità di esprimere liberamente le proprie idee, senza farsi acerrimi nemici, si è di fatto molto ridotta.

Avere un pensiero critico che non coincide con quello maggioritario e di potere è oltremodo svantaggioso. Un disagio che si accentua nelle piccole comunità, ove ciò che dovrebbe essere uno scambio e confronto di idee e punti di vista nel rispetto reciproco, magari fra persone cresciute insieme, si riduce a una guerra intestina.

Niente viene risparmiato. Finiscono amicizie. Si logorano rapporti di parentela. A poco a poco, si instaura una sorta di autocensura. Molte persone evitano di dire la loro, altre più semplicemente si adeguano. Così, complici la superficialità, il menefreghismo, la miseria, l’insicurezza e il mero interesse personale, si rinuncia giorno dopo giorno a un pezzetto di libertà. Lottare per difenderla è un dovere di tutti, come è responsabilità di tutti la sua limitazione. Ed è pure responsabilità di tutti ritrovarsi a votare, senza possibilità di scelta se non una.

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