La riforma sull’autonomia differenziata appena festeggiata alla Camera dalla maggioranza con tanto di bandiere regionali è un salto nel buio. Ad ammetterlo è già stato il ministero dell’Economia perché ad oggi è impossibile definire quali saranno i costi effettivi di una scelta che permetterà alle regioni con un residuo fiscale positivo, che cioè ricevono in spesa pubblica meno di quanto versa in tasse, di trattenere parte di queste risorse per gestire in autonomia una serie di funzioni finora in capo allo Stato. L’Ufficio parlamentare di bilancio ha infatti chiesto una valutazione preliminare dell’impatto finanziario del trasferimento delle funzioni che le Regioni potrebbero chiedere di gestire in autonomia e che, ad oggi, è impossibile prevedere. La riforma riguarda ben 23 materie tra cui istruzione, sanità, ambiente, energia, sport, trasporti, commercio estero, cultura. Ma ogni materia ha decine di funzioni e in totale si arriva quasi a 500. L’operatività della riforma non è cosa immediata e con tutta probabilità non arriverà prima del 2026 perché deve passare dalla definizione di una serie di paletti che, in teoria, dovrebbero evitare alle Regioni meno ricche di non riuscire più a garantire i servizi legati ai diritti civili e sociali. Un percorso che non soddisfa le opposizioni, certe che la riforma leghista del ministro per gli Affari regionali e le autonomie Roberto Calderoli finirà per minare alle fondamenta l’unità del Paese.

A festeggiare la legge quadro, già prevista dalla riforma del Titolo V nel 2001, sono soprattutto le Regioni del Nord, quelle con un residuo fiscale positivo, Lombardia e Veneto in testa, che in parole povere potranno rivendicare a sé moltissime funzioni e la possibilità di finanziarle trattenendo sul territorio il gettito tributario necessario. E non sono solo quelle a trazione leghista ad essere interessate. Anche l’Emilia Romagna di Stefano Bonaccini, oggi presidente del Pd, ha espresso la necessità di parametrare le risorse al al gettito tributario maturato sul territorio. Non con le provocatorie iniziative referendarie degli allora presidenti Maroni e Zaia, ma avanzando identiche richieste e sdoganando definitivamente le rivendicazioni leghiste. Dall’altro lato ci sono tutte le altre Regioni, la maggioranza e in particolare quelle del Sud, che dalla redistribuzione da parte dello Stato traggono parte delle risorse necessarie ad erogare servizi che già registrano una spesa pubblica per abitante mediamente inferiore a quelle di altre Regioni, basti pensare alla sanità. A dire quanto si dovranno preoccupare saranno i patti decennali in cui governo e Regioni definiranno il grado di autonomia e dunque le funzioni da trasferire e così personale, infrastrutture e fondi. Al parlamento il compito di bollinarli senza però la possibilità di modificarli. Ma è fin d’ora evidente che l’interesse per la riforma riguarda essenzialmente chi i soldi ce li ha e da domani potrà tenerseli, a scapito di aree dove il gettito maturato sul territorio già oggi non garantisce pari servizi e dalle quali le persone potrebbero decidere, una volta di più, di spostarsi verso zone del Paese dove i servizi avranno, almeno in teoria, maggiori risorse.

L’unico argine a quella che l’economista Gianfranco Viesti ha definito la “secessione dei ricchi” dovrebbe essere la definizione, ancora da venire, dei famosi Livelli essenziali delle prestazioni (Lep), una specie di minimo sindacale per i servizi come istruzione e sanità, da garantire su tutto il territorio nazionale. A stabilirli non sarà il Parlamento, ma ancora una volta il governo, con una serie di decreti legislativi per i quali ha tempo 24 mesi dall’entrata in vigore del ddl. Fatto questo, si potrà iniziare il trasferimento delle diverse funzioni richieste dalle diverse Regioni interessate nei limiti delle risorse stanziate per i Lep in legge di bilancio. “Il testo approvato si concentra sulle procedure per stipulare le intese tra Regioni e Governo, ma rimanda a un futuro indefinito la decisione sulle modalità di finanziamento degli stessi Lep, peraltro senza che questi contemplino minimamente ambiti sociali come la povertà, la disabilità, l’emarginazione sociale. Né tiene conto della necessità di prevedere adeguati meccanismi perequativi per impedire l’aumento delle disuguaglianze territoriali, lasciando così in bilico la concreta realizzazione delle intese differenziate”, commenta il Forum Terzo Settore, che rappresenta 100 reti nazionali e oltre 120mila realtà territoriali di Terzo settore. Non è questione di lana caprina, visto che parte delle risorse finora a disposizione rimarranno nelle tasche di alcune Regioni. Arriveranno nuove tasse? Il ddl Calderoli dice che tutto avverrà “senza nuovi o maggiori oneri”, ma ad ora credergli è un azzardo. Per approdare ai dpcm del governo lavorerà una Commissione guidata dal giurista Sabino Cassese insieme alla Commissione tecnica sui fabbisogni standard, quella presieduta da un membro della delegazione per l’autonomia del Veneto. Nell’attesa, la riforma resta un enorme carro davanti a buoi che non si sa bene quale forza abbiano per spingerlo. Intanto un rischio è già stato evidenziato dallo stesso Ufficio parlamentare di bilancio: “L’autonomia differenziata potrebbe evolvere verso configurazioni molto diverse fra loro a seconda della numerosità delle Regioni interessate e dell’ampiezza ed eterogeneità delle funzioni richieste. Non si può quindi escludere uno scenario fortemente frammentato con un significativo numero di Regioni che acquisiscono funzioni differenti, con una diversa composizione relativamente ai LEP e con un diverso peso finanziario”.

La maggioranza, leghisti in testa, hanno sempre buttato acqua sul fuoco. Ma il pericolo che si arrivi addirittura a maggiori costi per i cittadini esiste. Come ha spiegato Francesco Pallante, docente di diritto Costituzionale a Torino e autore del libro Spezzare l’Italia (Einaudi, 2024), le Regioni chiederanno funzioni differenti, così in alcuni casi lo Stato trasferirà, in altri dovrà tenere per sé queste stesse funzioni. “Non avremo quello smantellamento delle strutture statali a favore delle strutture regionali che viene propagandato, ma una duplicazione di strutture”. E in tal caso una moltiplicazione dei costi. Le opposizioni (Pd, Avs e Italia Viva) hanno già annunciato iniziative referendarie per abrogare la nuova legge che, al netto di tutte le questioni fiscali e burocratiche, è innanzitutto un cambiamento di paradigma nel rapporto tra i cittadini dello stesso Paese. La riforma, figlia di un regionalismo che affonda le radici in quella che fu la Lega Nord per l’indipendenza della Padania, parte infatti dal presupposto che siano le Regioni a pagare le tasse e a ricevere indietro qualcosa. Lo stesso Pallante nega che sia così. “Sono i cittadini a pagare le tasse e a ricevere servizi pubblici, e questi non costituiscono popoli a sé stanti su base regionale: se vogliamo considerarci cittadini delle Regioni prima che cittadini dello Stato, allora effettivamente introduciamo un discorso di tipo secessionista”. Ancora: “Il sistema tributario è improntato al principio di progressività fiscale che è principio fondamentale della Costituzione: quello che io pago in imposte è sostanzialmente analogo a quello che paga un mio collega che insegna all’università di Napoli o all’Università di Messina. Questo perché l’imposizione fiscale è nazionale e finalizzata alla redistribuzione della ricchezza, che opera a livello nazionale tramite il principio per cui chi guadagna di più paga in percentuale una quota maggiore del proprio reddito rispetto a chi guadagna di meno”.

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