In città non si parla d’altro. Rabbia, costernazione, compassione, vergogna, ribrezzo sono le sensazioni più comuni. Non cominciate però eh, si affrettano a dire in molti, Latina non c’entra perché noi ci dissociamo da questi mascalzoni. E come fai a non farlo? E’ il giorno dopo la morte di Satnam Singh, venuto qui a cercare un lavoro: raccoglieva fragole a Borgo Santa Maria a 4 euro l’ora, è morto e nel modo più disumano possibile. Un macchinario gli ha amputato un braccio e non avendo un contratto, per lui non esisteva né l’Inail, e nemmeno l’ospedale; il suo padrone ha pensato bene di risolvere mettendo l’arto tranciato dentro una cassetta della frutta, e scaricare tutto, come un rifiuto davanti casa sua al Borgo.

Satnam Singh era uno schiavo che raccoglieva e piantava frutta e verdura, concimate dal sudore e dal sangue di chi le lavora. Ogni volta che succede una tragedia – e ne succedono spesso – ci troviamo a fare sempre le stesse addolorate considerazioni. A voler cambiare un futuro che rimane sempre e comunque immobile, fino al fatto successivo. Riusciremo mai a fare un passo avanti? Per cambiare qualcosa serve un’azione politica decisa e forte contro il padronato, ripete sempre Marco Omizzolo.

Già! Marco Omizzolo, sociologo e autore di saggi e ricerche nazionali ed internazionali sullo sfruttamento del lavoro in agricoltura dei lavoratori stranieri, si batte da anni per i diritti di questi invisibili. Lo cerco. Per fare la sua tesi di dottorato, anni fa, decise di conoscere e studiare la folta comunità indiana dell’Agro Pontino. Lui li frequenta da anni e ha guadagnato la loro fiducia. Fu il primo italiano ad occuparsi di loro e ad aiutarli. Una persona sicura su cui fare affidamento per tutto. E’ addolorato e mi dice che questo non è il primo caso e non sarà l’ultimo. E’ purtroppo questa l’espressione drammatica di un sistema che produce da una parte profitti milionari attraverso lo sfruttamento e dall’altra la morte di lavoratori e lavoratrici. Stavolta è toccato a Satnam. Decine e decine di altre persone – anche italiane – in questo paese hanno deciso di costruire una parte della propria economia e della propria impresa sulla schiene piegate di migliaia di lavoratori nelle campagne.

Satnam non è stato vittima di un caporale ma di un padrone che lo ha gestito in maniera criminale.

Tanti gli indiani che lavorano nella nostra provincia. Sono arrivati in Italia fin dagli anni Ottanta. Vengono prevalentemente dal Punjab e sono tutti di religione sikh. Non si può fare una stima di quanti siano. Quasi nessuno ha contratti regolari e, per assicurare sulle tavole degli italiani ortaggi e frutta fresca, si spaccano la schiena sopportando uno sfruttamento disumano. Si svegliano all’alba e ogni mattina vanno nelle serre a lavorare. Li incontri a frotte nelle strette strade dei borghi la mattina presto e la sera tardi. Vanno con il buio e tornano con il buio. Sono invisibili purtroppo anche sulla strada: bisogna stare molto attenti perché ti sbucano davanti all’improvviso. La bicicletta per loro rappresenta futuro e speranza di cambiamento. La usano sempre e comunque. Con o senza fari, con o senza giubbotto catarifrangente. Per loro è importante inforcare il mezzo e raggiungere su quei campi: ogni cassetta, ogni fragola, ogni melone, è per loro un simbolo di futuro e di speranza.

Così vedeva la propria vita Satnam. Quella mattina lui si era alzato presto come al solito e aveva percorso in sella alla sua due ruote via della Speranza, per arrivare alle serre dei Lovato. Lì la sua vita si è conclusa, nel peggiore dei modi, lasciando nella disperazione la sua giovane moglie.

Damiano Coletta, ex sindaco di Latina, è indignato perché dice che a nulla sono valsi i progetti messi in campo in questi anni per far emergere e contrastare la riduzione in schiavitù. Senza controlli adeguati e costanti, senza la certezza delle pene, gli sfruttatori continueranno a far leva sul bisogno degli ultimi fra gli ultimi. Dice: “Avevo lasciato con i finanziamenti del Pnrr 4 milioni di euro per il contrasto a tutte le forme di discriminazione, compreso il caporalato. Mi risulta che ne sono stati utilizzati forse la metà e si stanno ridimensionando purtroppo anche a livello di governo”.

La tragedia di “Navi”, così chiamavano Satnam, ci porta nell’abisso della disumanità. Ma forse c’è ancora speranza se, come dice la sindaca di Latina, Matilde Celentano, sta ricevendo numerosi messaggi da parte di cittadini che sconvolti per l’accaduto: “Vogliono sostenere iniziative benefiche in favore della famiglia di Satnam Singh. Questo vuol dire che nella comunità prevalgono i valori della solidarietà”. Se ci sono persone che con atti concreti vogliono e possono ristabilire un diritto alla vita di chi di diritti ne ha pochi, forse qualcosa potrebbe cambiare?

La sera in cui Satnam è morto, nel borgo di Gnif Gnaf, così si chiamava prima per ricordare l’affondare degli stivali nella palude, la festa programmata è andata avanti come se nulla fosse successo. Si è mangiato, ballato e cantato fino a notte fonda nell’indifferenza più assoluta. Forse sarebbe stato più opportuno fare silenzio, per permettere ai pensieri di rallentare e alle emozioni di consolidarsi e rinsaldarsi. Sì, fare silenzio per ascoltare e meglio interpretare i fatti accaduti, e far metabolizzare il dolore di chi in questo momento soffre più di altri. Ma cosa più importante, fare silenzio per onorare tutti, soprattutto gli invisibili che vivono tra noi e che continuiamo a far finta di non vedere.

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