Contro il muro di Eni, le ong si rivolgono direttamente alle Sezioni unite civili della Suprema corte di Cassazione. È l’ultima azione di Greenpeace Italia, ReCommon e le cittadine e i cittadini che avevano lanciato “La Giusta Causa“, una causa civile contro il colosso energetico per “i danni subiti e futuri derivanti dai cambiamenti climatici”, accusando il gruppo di avervi contribuito con la sua condotta negli ultimi decenni. Se per l’azienda si tratta di “un’azione legale totalmente infondata”, su cui nessun giudice potrà pronunciarsi, ong e cittadini coinvolti vogliono che sia la stessa Cassazione a dichiarare se il giudice ordinario italiano abbia o meno questa competenza. Il contenzioso climatico è stato avviato a maggio 2023 davanti al Tribunale di Roma dalle due ong e da 12 cittadini e cittadine, ed è rivolto anche contro il ministero dell’Economia e Cassa depositi e prestiti, in quanto azionisti con influenza dominante sulla società. L’ultimo atto della vicenda è stato spiegato nel corso di una conferenza stampa, durante la quale Greenpeace Italia, ReCommon e i legali che le rappresentano hanno anche replicato alla versione che Eni ha fornito in un comunicato stampa.

Cosa si chiede con “La Giusta Causa” – “Con la nostra azione non chiediamo una quantificazione dei danni, ma un’accertamento delle responsabilità di Eni, ministero e Cdp per questi danni e la condanna del colosso energetico a rivedere la sua strategia industriale per rispettare l’Accordo di Parigi e del Mef ad adottare una politica climatica che guidi la sua partecipazione nella società attenendosi a quell’accordo” spiega Simona Abbate, campaigner Clima & Energia di Greenpeace. E aggiunge: “Dopo il lancio della causa, Eni ci ha minacciato con azioni legali per diffamazione, ci ha censurati in televisione e ora ci accusa di portare avanti una campagna di disinformazione. Con nove relazioni tecniche e altrettanti profili di testimoni e consulenti, a differenza di quanto dichiarato da Eni nelle ultime ore, noi vogliamo affrontare il processo e che questa causa vada avanti”.

La versione di Eni – “Greenpeace e ReCommon, che lo scorso anno avevano avviato nei confronti di Eni un’azione legale totalmente infondata relativa ai temi climatici, hanno chiesto la sospensione del procedimento a seguito della presentazione, da parte degli stessi, di un ricorso per regolamento di giurisdizione” ha commentato il 20 giugno l’azienda, ricordando che la giurisdizione “era già stata esclusa nella nota causa “Giudizio Universale”, promossa dal mondo dell’associazionismo contro lo Stato italiano sempre in merito ai temi climatici“. A marzo 2024, la seconda sezione civile del Tribunale di Roma, infatti, ha dichiarato inammissibili le domande proposte nella causa intentata nel 2021 da 203 attori, tra cui 24 associazioni e 179 cittadini, “per difetto assoluto di giurisdizione del Tribunale”. Eni ha anche espresso la propria perplessità su questa nuova iniziativa, secondo il colosso “finalizzata a ottenere la sospensione della causa” per la quale il giudice aveva già fissato l’udienza per la decisione al 13 settembre 2024.

Il nodo della giurisdizione – Passaggi ricordati, in realtà, dalle stesse ong in conferenza stampa. Dopo la prima udienza tenutasi a metà febbraio, infatti, il giudice designato dal Tribunale di Roma aveva comunicato alle parti in causa un’ordinanza con cui fissava l’udienza del 13 settembre prossimo proprio per pronunciarsi sulle eccezioni preliminari sollevate da Eni, dal Mef e da Cdp. Questi ultimi hanno eccepito, tra l’altro, il cosiddetto “difetto assoluto di giurisdizione“, sostenendo che la domanda è inammissibile perché non vi è giudice che possa accoglierla, in nome della separazione dei poteri tra giudiziario da un lato e legislativo ed esecutivo dall’altro. Se questa linea fosse confermata, la domanda verrebbe dichiarata inammissibile e il processo non potrebbe avere luogo. “L’azienda, il ministero e Cdp ritengono che nessun giudice possa pronunciarsi su quale politica climatica Eni debba seguire essendo le scelte industriali garantite dall’articolo 41 della Costituzione italiana sulla libertà di impresa”, spiegano e ong, “dimenticando tuttavia che nel 2022 proprio tale articolo della Carta costituzionale è stato modificato includendo l’ambiente e la salute tra i beni pubblici che limitano l’attività d’impresa”. Nel corso della conferenza, l’avvocato Matteo Ceruti, nel team legale delle organizzazioni, ha ricordato che il ministero nelle sue memorie difensive ha finanche sostenuto che l’Accordo di Parigi del 2015 non sarebbe operativo nel nostro Paese, in quanto l’Italia lo avrebbe sì ratificato e reso esecutivo ma non avrebbe ancora approvato una legge di attuazione indicando modalità specifiche di raggiungimento degli obiettivi climatici. Le organizzazioni hanno ricordato anche che la causa “Giudizio Universale”, tra l’altro giunta solo al primo grado di giudizio, riguardava le responsabilità dello Stato e non di un’azienda privata, come in questo caso.

La replica: “Nessun passo indietro”– “Non possiamo più temporeggiare, serve agire subito. Per questo abbiamo deciso di rivolgerci alle Sezioni unite civili della Cassazione per avanzare con più forza la nostra richiesta di ottenere giustizia climatica” spiegano le ong, secondo cui, “malgrado quanto dichiarato pubblicamente in più occasioni, Eni non sembra avere alcuna intenzione di entrare nel merito delle accuse che le abbiamo mosso sul suo impatto passato, presente e futuro sul clima del pianeta”. Rispetto alla nota pubblicata dall’azienda nella quale si parla della richiesta di sospensione, invece, Ceruti ha spiegato che si tratta di “un atto dovuto”. L’istanza di sospensione, in pratica, è stata sì presentata dalle ong, ma perché è prescritta dal codice di procedura civile in questi casi. E sull’ipotesi di un’azione davanti al Tar, di cui pure si è discusso in questi mesi, Cerruti spiega che “presuppone un atto amministrativo impugnabile”, non escludendo che il nuovo Piano nazionale energia e clima possa in seguito diventare oggetto di impugnazione. “Per ora siamo concentrati su questo contenzioso” precisa Antonio Tricarico di ReCommon, sottolineando che nella “Giusta causa” “è stata Eni, con ministero e Cassa Depositi e Prestiti, a voler sollevare con forza il difetto di giurisdizione. Ma la posizione del “quel processo non s’ha da fare” per noi è inaccettabile. Abbiamo deciso, quindi, di rivolgerci alla Cassazione proprio per accelerare i tempi, sciogliendo una questione preliminare”.

Gli altri precedenti E ricorda altre sentenze storiche, come quella con cui ad aprile 2024 la Corte europea per i diritti dell’uomo (Cedu) ha dato ragione a un gruppo di oltre 2.500 cittadine svizzere, con un’età media di circa 73 anni, sostenendo che la Svizzera ha violato i diritti tutelati da alcuni articoli della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. “Credo che per Eni questa causa sia fonte di nervosismo“, ha commentato Tricarico. “Ricordiamo che, dopo la sentenza di primo grado con cui un tribunale olandese ha condannato Shell per strategie di sviluppo non coerenti con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi, il colosso anglo-olandese ha spostato il suo quartier generale a Londra. Noi siamo pronti anche ad arrivare alla Cedu”.

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